1970 gennaio 6 Lanerossi: no al catenaccio
1970 gennaio 6 (Il Gazzettino)
Lanerossi: no al catenaccio
Farina: « Potremmo essere assieme al Cagliari! »
Nel microfono del telecronista Paolo Arcella, Cinesinho commentò domenica scorsa: « E’ la
squadra che ha ritmo, velocità e fa gioco. Allora, anche se sono assente io o un altro, la squadra
resta forte lo stesso ». Tenuto conto del temperamento estremamente segnato del Cinese, la
dichiarazione stupì per umile fair play verso compagni ancora fradici di neve e di gelo. Giglio
Panza, direttore di « Tuttosport », mentre scendeva dalla tribuna stampa, borbottava paternalistico,
da posato piemontese di Vercelli: « Questa è la prima volta che vedo il Vicenza, ma ne sono rimasto
innamorato, neh. Gioca, football piacevole, quasi fuori del mondo, nel senso del catenaccio. Me ne
avevano parlato bene, e avevo letto naturalmente, ma adesso capisco che non c’era esagerazione ».
Gianni Brera, cappello marron e sigaro tra le labbra, si chiedeva nell’intervallo: « Sembra
impossibile che ‘sto Vicenza non debba tirare le cuoia sul ritmo, nel secondo tempo. Rischia
autocombustione ». Il timore di un acutissimo osservatore « atletico » come Brera fu superato
invece da un Lanerossi che accelerava invece di spegnersi, fino a vincere il match a 10 minuti dallo
stop, dopo aver creato (sempre alla distanza) altre nette situazioni-gol.
Osservavo con Puricelli, rilassato come una piuma dopo la partita: « A Torino, forse hai
commesso un errore: quello di mettere in panchina un attaccante, cioè Rigoni. Sì, sei stato
sfortunato, Puja fece gol a tempo scaduto, però la sconfitta venne dopo il cambio del… tredicesimo.
Se tu avessi portato in panchina un difensore, magari Primon o un altro, al posto di una punta,
probabilmente nemmeno Puja sarebbe bastato a vincere ». Puricelli ebbe un attimo di onesta
perplessità e rispose: « Forse hai ragione, ma sono stato costretto a scegliere Rigoni proprio perché
Damiani non era in perfette condizioni. Avevo paura che non ce la facesse e dovevo aver pronto un
sostituto ».
« Io avrei fatto catenaccio a Torino » ho insistito con Puricelli.
« Ma la mia squadra — ribatté forte il Puri — non sa fare catenaccio! Non lo sa fare, hai capito?
Perché le piace giocare, si diverte, scopre che anche dei derelitti de provincia possono incantare la
grande stampa ».
La prima caratteristica di « questo » Lanerossi è veramente di non saper fare catenaccio, secondo
cliché sparagnino. E forse sta proprio qui la ragione dei punti perduti all’ultimi minuti (Fiorentina e
Torino) o negli ultimi minuti (Bologna e Inter). Quando la squadra ha in mano il risultato, quando si
ritrova costretta dalla disperazione altrui a contrare il forcing, allora, proprio allora, rivela la sua
scarsa verve catenacciara. Non perchè la difesa sia brocca, ma perché è tutta la squadra impostata
con distanze inconsuete per una « poareta » di provincia.
Domenica scorsa, nello spogliatoio, un consigliere portò otto bottiglie di vino buono, senza
etichetta, delle colline tra Vicenza e Verona. C’era tutto lo staff con il bicchiere in mano, da Farina a
Pisoni a Levante a Malaman, Menti e l’uruguagio Puricelli. Il presidente Farina faceva conti
nostalgici: « Potremmo essere in testa alla classifica!!! ». Pensava alla sconfitta irreale con il
Brescia (espulsione di Cinesinho) e ad almeno altri due-tre punti controllabili facilmente. Qualche
minuto prima era entrato nello stanzone Franco Carraro, presidente del Milan, con la faccia tirata:
« Complimenti, avete una grande squadra». L’atmosfera, dopo una vittoria pulita contro un Milan «
vero », ha ricucite intere le trame di venti giorni fa. Trame esaltanti, interrotte non per crisi, ma per
episodi occasionali, legati anche a limiti intrinseci di una « provinciale », non di un Club da
scudetto!
Ma va aggiunto un tasto importante (dopo l’allergia al catenaccio); un tasto legato al timore
espresso da Brera: la condizione atletica. Nonostante mancasse alla squadra l’uomo per riflettere,
per fare pausa, cioè Cinesinho; nonostante il contributo abituale di De Petri a centrocampo sia
sensibile; nonostante tutto ciò, i muscoli non si sono imbastiti. In De Martino si lavora sul serio
(vedi caso Zanetti, collaudato giusto); le riserve come Derlin (ma si può chiamare riserva un
giocatore della intelligenza di Derlin?) sono sempre disponibili sul ritmo. Rilievi di fondo,
importanti: la tenuta agile sui 90 minuti è preparazione, pulizia professionale, controllo medico. C’è
tutto, da Puricelli a Berto Menti a Malaman.
L’altro giorno fu detto a Facchin: « Se continui cosi, andrà a finire che ti venderanno per il
doppio di quanto sei costato, anche se i 30 anni sono passati ». Facchin sorrise sotto la doccia
bollente: « Noo, non m’interessa, io resto qui, resto a Vicenza ». Una dichiarazione così l’ho sentita
fare l’anno scorso da Alberto Reif, ambiziosa punta-bene del campionato 1968. I trecento milioni
abbondanti pagati dall’Inter al Lanerossi privarono di senso quel « programma sentimentale »,
negato al professionismo. Ma Facchin non è giovane, non è ambizioso, non è un « nome ». E’
soltanto un umile operaio del football, un acquisto giusto di Puricelli, un veneto che ha ritrovato
proprio contro il Milan ’70 il gusto delle prime pagine e dei titoli a nove colonne. Lui ha capito
perchè vuol restare a Vicenza. Per andarsene, lo dovranno cacciare.
E’ stata una giornata fitta d’episodi per un altro pomeriggio favoloso della « provincia » veneta.
Turbato soltanto dalla sconfitta del Verona, quando il tempo sembrava aver lavorato giusto e
quando il match di Napoli (primo tempo 0-1) sembrava confermarlo al maximum. Saverio Garonzi
e signora, in tribuna a Vicenza, offriva una espressione sbigottita chiedendosi: « Chissà cosa è
successo? Vincere uno a zero e perdere…». Ma nemmeno per il Verona, una sconfitta in trasferta
può annichilire. « Se la casa brucia — scriveva Nietzsche — si dimentica persino il pranzo. Certo:
ma lo si riprende sulla cenere ». Nietzsche l’ha scritto anche per Garonzi Saverio, testimone (triste)
del Real Vicenza.