1970 settembre 2 “Riva vedeva la porta nera”
1970 settembre 2 (Il Gazzettino)
« Riva vedeva la porta nera »
DAL NOSTRO INVIATO
Milano Marittima, 1 settembre
Dopo il Messico, Walter Mandelli parlò una volta soltanto: il 29 luglio, al Consiglio federale, con
una relazione che chiudeva la sua compartecipazione alla gestione della Nazionale. « Querelo per
falso, — mi ha detto — se leggo una dichiarazione attribuitami ». Nonostante la premessa
scoraggiante, gli ho chiesto un’intervista. Mandelli precisa: « Racconto qualcosa, ma non desidero
sensazionalismi. Io me ne sotto andato, loro (Valcareggi e C., ndr) rimangono: tra un po’
ricominceranno lo convocazioni…».
Siamo all’Hotel Mare Pineta di Milano Marittima, camera 426. I soliti occhiali di solido telaio;
una camicia sobria; calzoni beige. Sul comodino, una « Storia del pensiero economico », edizione
pocket. Molti quotidiani: ne legge sette al giorno. Imputato al « processo » semiserio di Cesenatico,
Walter Mandelli, con le telecamere addosso pronunciò, riferendosi alla finalissima Brasile-Italia,
una frase ermetica: « Il nostro torto, l’unico, fu forse di non pensare all’aspetto umano delle cose: da
tecnici puri si è creduto di poter razionalizzare tutto, ma la vita, il calcio, è anche irrazionalità ».
Gli chiedo che significato concreto aveva quell’autocritica.
« Se hai tempo, — risponde Mantieni — parto da lontano. Nella vita non esiste una verità unica:
qualunque cosa accada potrebbe essere anche “diversa”. Pensa alla guerra. Quante volte non
leggiamo: l’offensiva tedesca fallì perchè i generali non calcolarono bene le condizioni
atmosferiche… eccetera? ».
— Vuoi dire che la finalissima di Città del Messico fu condizionata da un errore logistico?!
« Noo. Valcareggi credeva in certi orientamenti ed io li condividevo. Tra questi, quello di
puntare il più possibile sugli stessi giocatori e di valutare moltissimo il lavoro di chi aveva giocato
nel primo tempo (Mazzola, ndr), come decisiva preparazione al secondo ».
Impopolari
— Quale fu allora l’errore della finalissima?
« A 12 mila chilometri non ci si rendeva conto che in Italia una certa soluzione (Rivera, ndr) era
giudicata come il toccasana. Noi questo non l’avevamo capito e non ne eravamo convinti.
L’inconveniente più grande fu che i… giornali italiani ci arrivavano con tre giorni di ritardo! La
nostra scelta era dettata da una tesi fredda, che non teneva conto delle atmosfere; non teneva conto
del fatto che milioni di telespettatori non condividevano quella scelta ».
— Ma allora avreste scelto la formazione dell’opinione pubblica? Non ti pare un sistema
pericoloso e acritico?
« Non è per fare le cose volute dal pubblico, per demagogia, che non abbiamo mai fatto in questi
anni: non volevamo tornare simpatici, ma vincitori. E del resto, avevamo lasciato a casa certa gente
anche a costo di apparire impopolari (Chiarugi, Lodetti, ndr). Solo che noi eravamo un “corpo
staccato”, pensavamo da puri tecnici. Captando l’atmosfera italiana, la stampa e l’opinione
pubblica… che sono la stessa cosa, avremmo ragionato di più sulle scelte finali. Se l’opinione
pubblica ti preme, devi fare uno sforzo grande per decidere contro le sue tesi ».
— Meno isolati, sareste insomma stati meno certi della giustezza delle vostre opinioni tecniche.
« Noi, in fondo, siamo degli attori: la stessa commedia, con gli stessi attori, è diversa se la reciti
a Catania, a Venezia o a Torino. Dato che si trattava della finalissima, forse avremmo dovuto
recitare a Città del Messico come se il palcoscenico si fosse trovato in… Italia. La soluzione della
grande maggioranza avrebbe oltretutto cancellato ogni discussione. Noi abbiamo invece fatto una
scelta da scienziati, con il difetto delle cose accademiche. Abbiamo agito comunque in perfetta
onestà ».
— Ma, parlando di premeditati linciaggi, di umiliazioni, di manovre, persino la vostra onestà fu
messa in dubbio. La testimonianza diretta si chiama Fiumicino.
« Lo trovo naturale! ».
— Dici sul serio?
«Certo, Arrivammo alla finale con una vittoria sovrumana; battendo la Germania proprio perchè
ci sentivamo inferiori, pensavamo al colpo gobbo. Ricordi? L’Usa che batte l’Inghilterra, la Corea
che batte l’Italia… Dopo la partita, i dirigenti messicani vennero a trovarci negli spogliatoi e ci
dissero: “Qui metteremo una lapide e scriveremo: il tal giorno, in questo stadio, fu giocata la partita
di sempre, la partita di tutti”. Quando esci da una partita del genere, i paesani si sentono i migliori
del mondo; la finale con il Brasile divenuta superflua; la Coppa Rimet era finita per tutti, compresi i
nostri giocatori, che entrarono in campo contro Pelè sentendosi sullo stesso piano del Brasile, non
più inferiori ».
— Ho capito; ma che c’entra con la disonestà tua e di Valcareggi?
« La gente, in Italia, si chiedeva, prima della partita: come si può perdere ora se abbiamo vinto
quella partita? Siamo i vincitori della Coppa: perchè dobbiamo dimostrarlo ancora, con un’altra
vittoria? Il risultato, la sconfitta…, scandalizzò tutti, perchè era “impossibile”. Quindi, qualcuno
doveva aver tradito! E’ stato scritto e detto di tutto. Pensa che, recentemente, un mio amico fu ospite
di un altissimo personaggio della vita politica. La figlia, quando sentì pronunciare il mio nome,
chiese: Mandelli? quello che ha venduto la partita al Brasile? Ne era convinta. La verità è che non
eravamo più pronti per la finale ».
— La presunta « manovra » si riferisce in particolare agli storici sei minuti di Rivera? Per il
linciaggio…
« Ma in sei minuti come potevi farlo compartecipe della sconfitta?! Lo sai che, se ti fa il gol in
quei sei minuti, t’impiccano? Per coinvolgerlo, l’avremmo semmai messo dall’inizio, ti pare? In ogni
caso, se l’Italia vinceva, non è che avesse vinto Rivera, ma la squadra ».
— Rivera fu boicottato dal cosiddetto clan inter-cagliaritano?
« Mai nessuno si è permesso di dirci che non voleva Rivera. Non solo, ma nemmeno i medici, i
massaggiatori, gli accompagnatori, che più coprivano l’intera giornata dei giocatori, ci riferirono
una cosa del genere ».
— Fuori delle drammatizzazioni, come giudichi oggi la reazione anti-Mandelli di Rivera?
« Rivera non era mai stato abituato a perdere il posto. Era un attore pronto ad andare in scena, al
quale dicono che non è la giornata giusta. In dieci anni di carriera non gli era mai successo: perciò
lo capisco. Del resto, dopo quel giorno, il suo comportamento fu irreprensibile. Ma vorrei anche
dire che il caso Rivera servì a rafforzare il clan della squadra: ci voleva infatti un episodio che
provocasse la condanna unanime da parte dei giocatori. Quella unanimità fu la controprova della
disciplina, della bontà della conduzione ».
Mezzi giocatori
— Ti è mai capitato di avvertire antipatia per un giocatore: Rivera o Corso, o chiunque altro?
« No. Ma una delle mie idee-guida in questi anni è stata questa: un gruppo non deve avere troppi
leaders. I giocatori assolutamente personali non sono amalgamabili: se li metti assieme non fai un
coro. A malincuore sono state fatte certe scelte proprio perché non ci debbono stare troppi galli in
un pollaio ».
— Chi imponeva questi criteri di fondo?
« Lavoro di gruppo, disciplina, niente troppe vedettes: furono sempre i miei orientamenti che
l’allenatore applicava in concreto. All’inizio della mia gestione, feci anche dei duri interventi diretti:
per esempio, accantonai momentaneamente Rivera. All’inizio, parlavo anche con i giocatori, negli
spogliatoi. Ma poi, quando l’ambiente fu creato, mi tirai in disparte. Io non sono un allenatore
professionista: che ne so? In Messico mi chiedevate: chi va in panchina? Ti assicuro che non me ne
sono mai interessato. Atleticamente, Valcareggi ha allenato benissimo la Nazionale e, quanto al
resto, dopo tre anni di lavoro di équipe, ti assicuro che si finisce con il pensare le stesse cose ».
— Sei d’accordo che esistono « grandi mezzi giocatori »? Cioè, per Brera, i vari Rivera,
Mazzola, eccetera.
« Per me esistono giocatori ortodossi, di ruolo, e giocatori che richiedono accorgimenti
particolari. Nei clubs anche i secondi trovano posto: nella Nazionale sono necessari il più possibile
giocatori tipici: se hanno grande classe, uno o due al massimo. Io e Valcareggi siamo stati sempre
d’accordo ».
— Come spieghi il sotto-rendimento di Riva?
« Riva, quando parlava con noi, conveniva in certe cose: non fare corse lunghe, per esempio. Ma
lui è un purosangue: come entrava in campo partiva in volate suicide. In Europa è insuperabile:
dopo 50 metri di scatto, gli altri vedono la porta “nera”; lui no, lui rimane lucido e segna. Là, in
altitudine, il debito d’ossigeno lo pagava lui, la porta nera la vedeva lui. Nonostante le buone
intenzioni, quando entrava in campo lo pigliava la foga, la razza, l’istinto. Ho visto per anni Sivori,
giocatore grandissimo, sempre in crisi nei grandi appuntamenti: dite notti prima non dormiva e
vomitava tra i due tempi. Solo se la partita andava bene all’inizio, prendeva tono: stonò, insultava
arbitri, calciava il pallone lontano, reagiva…».
— Riva della « razza » di Sivori: non lo credi dunque ridimensionato dal Messico.
« Riva è grandissimo. E può fare di tutto, anche a centrocampo. Ora lo allevano per fare i gol e
lui li fa, ma sa fare tutto. Alla fine del campionato, decontratto, lo vidi contro il Torino, arretrato:
giocò da grandissimo centrocampista ».
— Come giudichi il Brasile-tricampeon?
« Un fatto nuovo. Ha giocalo a basket, con capacità prensile dei piedi, con meline a
centrocampo, raggruppati assieme, per preparare l’affondo: proprio basket. Ne rimasi stupito: non
avevo mai visto tanti brasiliani… “assieme” ».
— Imbattibili per noi?
« In Inghilterra si giocò football americano, di forza. In Messico, gli arbitri vietarono lo scontro
atletico: hanno vinto i giocolieri. A livello del mare, dove Riva si possa esprimere, io credo che
avremmo delle chances. Noi, psicologicamente siamo un po’ labili, ma loro lo sono di più. Sull’1-1,
in finale, ebbero paura autentica: se Domenghini o Riva fossero riusciti a mettere dentro una delle
due palle-gol costruite, non so come sarebbe andata a finire… Anche questa incertezza è football,
vita ».
— Dal cellulare di Fiumicino ad oggi, è cambiato l’atteggiamento della gente nei tuoi confronti?
« Enormemente. Ora mi chiedono per la strada anche l’autografo: non mi era mai successo
prima ».
Lo dice sorridendo. Ha parlato per un’ora senza la minima concessione al sensazionalismo, alla
ripicca personale. Sono dichiarazioni di un gentleman, ritornato all’industria. Il calcio azzurro gli
deve qualcosa, con il solo onere del rimborso-spese. La misura del « qualcosa » realizzato da
Walter Mandelli lo diranno gli anni che ci conducono a Monaco ’74. Forse gli anni dei pentimenti.