1996 settembre 16 È passata la febbre, non la malattia
1996 settembre 16 – È passata la febbre, non la malattia
È passata la febbre, non la malattia. Umberto Bossi si è autoproclamato il Ribelle ed è passato al bosco,
direbbe Ernst Junger, ma la sua Padania resta tra noi. Un neologismo che coverà sotto la cenere della
politica. Una parola che la Treccani dovrà presto aggiornare: «Programma della Lega per separare il
Nord dal Sud dell’Italia». Per tre giorni lungo il Po, Bossi ha frullato tutti i populismi. Un po’ Poujade,
un po’ Le Pen, un’oncia di Perón con i suoi descamisados verdi, qualcosa di Radovan Karadzic, l’orco
psichiatra dei monti serbobosniaci. In più, guerrieri e non violenti alla rinfusa, lo spadone di Braveheart
e l’ampolla alla Gandhi, un poco come nella sua biografia lumbard tra citazioni di Jefferson e Kennedy,
di Trotzkij e Mac Arthur, guerra e rivoluzione.
Per secedere ha scelto la città sbagliata. Venezia, il luogo senza confine, capitale di un territorio
dell’anima. La città che non appartiene più nemmeno a chi ne dispone, quasi che gli stessi veneziani
l’avessero soltanto in custodia. Il luogo per antonomasia indivisibile. Bossi si è inventato, dal Monviso
a Chioggia, una catena di simboli, pescando all’ingrosso nel residuo sacro di una società dissacrata.
Ha scelto male l’ultimo simbolo. Venezia è l’emporio, il ponte. Mai il mare le ha insegnato a separarsi,
il suo eroe viaggia, quasi non ritorna. La New York del Cinquecento è cosmopolita, non può insegnare
nulla a chi alza barriere. Anche nell’elegia della sua caduta, duecento anni fra pochi mesi, può semmai
evocare l’Europa.
Non certo la Padania, che priva Venezia del suo respiro, mediterraneo e bizantino, il suo Sud mai
separato, destinato nei prossimi anni a sceglierla ancora come porta d’ingresso della cultura
multietnica. No, Venezia non c’entra. Sarebbe stata una sede appropriata soltanto per l’Assemblea
costituente, cui affidare il federalismo, la riscrittura del patto nazionale. Il contrario della secessione.
Qui, dove democrazia e libertà durarono mille anni. Qui, nell’occhio del Nordest che, ex povero, ex
Sud del Nord, ex terra di pellagra, ex canonica bigotta, ex esportatore di uomini disperati, ex polentone
e pellagroso, ex margine del Nord e suo subalterno, si è inventato imprenditore, operaio-artigiano,
artigiano-mezzadro, metal-mezzadro, tutte le variabili dell’economia a grappolo. «Piccolo è bello», si
diceva venti anni fa. Ma oggi piccolo è anche incazzato. L’incazzato era pur sempre moderato, anche
ex doroteo, e dunque si aspettava che Roma cominciasse a capirlo. L’istinto del Nordest restava
governativo, protestava per farsi governare prima che per autogovernarsi. La transizione «sfibrante» lo
ha sfibrato, fino a fargli sospettare che il mercato sia più importante dell’Italia, che l’evasione sia
soltanto una legittima difesa contro il fisco, che Bossi sia una soluzione.
Sicché, il Nordest vive oggi una fase che, insieme, lo esalta e lo spaventa: il vuoto di riforme nell’area
più riformista. Usa Bossi, ma pensa Prodi come ieri Berlusconi. Il capitalismo fai da te teme il
federalismo similoro, la bigiotteria istituzionale, il posticcio della seconda Repubblica come il trucco
della prima. Non crede alla secessione, ma non è più disposto a consegnarsi all’unità dei ministeri.
Qualcosa si è rotto per sempre, come sanno le teste più lucide e responsabili, da sinistra a destra. Ma
qualcosa attende al varco anche Bossi: il Po scorre per tutti, anche per chi vi ha pescato nel torbido.
La Lega Nord è tante cose. Militanti, moderati, zoccolo, ventre, pendolari del voto, avventizi e
fedelissimi, iscritti, camicie verdi, dialetto, festa, rigurgito, paese, radice, antistato, antimeridione e
federalismo come «seme di una storia nuova» (Martini). A volte è un pretesto più che un movimento, la
fuga dai partiti più che la fuga dall’Italia.
Questo ho toccato con mano ieri a Chioggia, sulle ultime sponde di Bossi, il Secessionista. Questa sua
scelta estrema romperà in due l’anima della Lega Nord, ne sono convinto. L’indipendenza, non il
ribaltone, è il primo errore di Umberto Bossi. Che da Venezia in poi potrà contare soltanto sugli errori
degli avversari.
16 settembre 1996