1997 gennaio 9 Quando Venezia non farà più notizia
1997 gennaio 9 – Quando Venezia non farà più notizia
Benedetto Croce spieg di aver filosofato spinto dal bisogno di soffrire meno. Massimo Cacciari deve
averlo fatto per soffrire di più, soprattutto da quando è sindaco, il san Sebastiano di Ca’ Farsetti. Lui ha
sempre creduto e fermamente crede che la sua Venezia possa rappresentare l’alter mundus, la città
alternativa, un luogo capace, se non di insegnare, di suggerire qualcosa alla modernità. Gli capita al
contrario di accumulare, su Venezia, cose dell’«altro mondo». E non propriamente lusinghiere, delle
quali si fa carico, colpo su colpo, con insofferenza crescente, un po’ defensor civitatis un po’ geloso
della roba, a volte con il dispetto del primo cittadino a volte con una solitudine da ultimo veneziano.
Per pudore alla rovescia, se ne duole in pubblico e ci ride sopra in privato. Tira aria di Bicentenario a
Venezia. La caduta della Repubblica Serenissima allude ad altri tonfi presunti, che la suggestione
materializza ed espande. Questa ha il destino della città delle suggestioni, delle metafore, dei segni,
dove anche i fatti di cronaca tendono a un significato ulteriore. Da ultimi, l’inglese «Independent» vede
Venezia insidiata dalla mafia, il tedesco «Focus» prigioniera del turismo. Uno psicanalista veneziano,
Antonio Alberto Semi, ha appena dato alle stampe un pamphlet che si conclude con cifre da necropoli:
la Venezia storica conta su settantaduemila abitanti, dei quali soltanto quarantottomila nati a Venezia,
con poco più di seimila ragazzi sotto i quattordici anni, città dunque facilissima da amministrare per
carenza di amministrati. Il rapporto più normale con Venezia è di odio-amore. Piuttosto sarebbe ora di
chiarirsi una volta per tutte di chi è Venezia, a chi appartiene. Mettiamoci l’animo in pace. Non ha più
proprietari, tantomeno padroni. Extraterritoriale, così è. Il professor Paolo Costa, ex rettore ora
ministro, la considera una città «a sovranità limitata», che deve fare i conti con l’opinione pubblica
mondiale. «Il Consiglio comunale – spiega – è un soggetto non il soggetto». Al caffè Florian si legge
«Le Monde»; qui il «New York Times» può diventare un giornale locale. È patetico e provinciale
lamentarsi perché Venezia «fa notizia». Nel bene e nel male, Venezia dovrebbe semmai temere soltanto
il giorno i cui non farà più notizia, né per l’«Independent» che per «Focus». Ma poi ci sono notizie e
notizie, balle e verità, paradossi ed enfasi, ricami e fatti. Se tu hai Maniero a due passi, una Fenice
bruciata in quel modo, un Casin con i noti annessi e connessi, un prosindaco prelevato di notte con una
pistola alla tempia, non è che puoi esorcizzare un problema serio nel nome dello scandalismo dei mass
media. Idem per il turismo. Il giro d’affari per il solo centro storico viene calcolato in duemila miliardi:
un bel fatturato, destinato a moltiplicarsi con il Giubileo di Roma. Ma, anche, un peso che sembra
schiacciare il futuro di Venezia, una questione reale, tutt’altro che inventata. Questo per dire che
Venezia deve essere grata di tanta attenzione internazionale. Lo Stato italiano le ha destinato sedicimila
miliardi dei contribuenti per disinquinarla, difenderla dalle acque alte, rilanciarla come città viva. Una
mano altrettanto sostanziosa gliela darà il mondo, a patto che sappia reggere anche lo sguardo del
mondo, le sue inchieste giornalistiche, i suoi timori. Persino le sue iperboli. Del resto, anche questa è
una storia vecchia. Quando scrisse La Repubblica del leone, lo storico Alvise Zorzi precis di aver
voluto fare anche giustizia di un sacco di falsità, denigrazioni, disinformazioni confezionate ora dalla
Francia imperiale ora dall’Austria, per non parlare delle malignità di Machiavelli, che avevano
perseguitato Venezia anche dopo il Risorgimento. Molto meglio oggi, con gli occhi sempre addosso,
ma per amore globale, di chi si aspetta sempre molto da Venezia. A dispetto dell’anniversario
jettatorio, il 1997 è un anno davvero speciale ed è facilissimo spiegare perché. Ha in cantiere capitoli
uno più strategico dell’altro. Decidere sulle acque alte, visto che a maggio tutti sapranno finalmente
tutto sull’impatto ambientale delle varie opzioni. Capire se l’effetto serra deve influenzare, da subito, le
scelte tecnologiche. Riparare con la saggezza e la scienza alla follia degli uomini e della cieca
economia, colpevoli di aver portato quella fragilissima creatura che si chiama laguna alla stessa
profondità, venticinque metri, del centro dell’Adriatico! Non solo. Venezia deve regolare il suo
sviluppo urbanistico: non può ristrutturarsi come Parigi o Londra ma può riconquistare lo spazio della
vitalità. Se fu maestra nell’inventarsi città, perché mai accettare il fatalismo del tempo? Giusto
vent’anni fa, Bruno Visentini teorizzava così la specialità di Venezia: «Mestre non può essere trattata
come la zona industriale di Venezia, né Venezia come la zona monumentale di Mestre». Il dilemma è
rimasto lì, piantato in mezzo a un dibattito senza fine, con una sola alternativa che vede Cacciari e
Costa tenacemente fedeli a un’idea veneta di Venezia. Ha detto il neoministro dei Lavori pubblici a
«Capital»: «Il Veneto ha immaginato di fare a meno di Venezia e potrebbe ancora immaginare di farlo.
Ma commetterebbe un grave errore». In tanta specialità veneziana, sarebbe questo il primo vero ritorno
di Venezia alla normalità dopo decenni di afasia con il proprio habitat regionale. Quel giorno
scopriremo che anche il pericolo di mafia è così normale. Da combattere normalmente in una città
speciale, del Nordest d’Italia ma a sovranità diffusa.
9 gennaio 1997