1997 maggio 11 Il Veneto rischia di chiudersi nel recinto
1997 maggio 11 – Il Veneto rischia di chiudersi nel recinto
Venezia. «Ci sono ancora i terroristi?» chiede una coppia di australiani in pellegrinaggio verso il
campanile. «Ma no, ma no…» assicura con aria sfiancata Mino Fusato, uno dei ventidue intromettitori
delle vetrerie di Murano. Sui tre pennoni di piazza San Marco il Comune ha fatto issare bandiere nuove
di zecca. Due mansueti leoni d’oro sventolano a lato del tricolore, il Florian e il Quadri si guardano
come da duecento anni. A mezzogiorno in punto, tre orchestre di caffè confondono Danubio, Fumo
negli occhi, la Marcia di San Lorenzo. Il commando Serenissimo sta in galera. Ma questo è il giorno
del per . Il per di Venezia, soprattutto il per del Veneto. La Chiesa, la nobiltà, la cultura, l’industria no,
non usano il per . Il patriarca Cè si sente «umiliato», la contessa Teresa Foscari Foscolo prova «pena»,
lo storico Alvise Zorzi nega che il raid meriti domani una citazione, Ivano Beggio teme l’effetto
campanile: «Così – si sconsola – non ci daranno più il federalismo. Addio». Questa Venezia non è
giustificazionista. Ma ho l’impressione che si tratti di un sentimento di élite, non so quanto popolare o
«popolano», direbbe Bossi. Mi sono imbattuto in un muro di per . Un muro, questa la verità. Sì, sono
dei matti, per Roma. Sì, sono ingenui, per lo Stato centralista. Sì, una cosa ridicola, ma le tasse
rapinano il settanta per cento degli utili. Sì, per il teatrino continua. Per qualcosa bisogna fare, per
protestiamo da anni. Per è tutto lo stesso, non succede mai nulla. Per . Sento Rocchetta, reduce dai
colli di Conegliano. Ha fatto un sondaggio di strada, al bar e al mercato: «Li considerano dei Robin
Hood», conclude. E aggiunge: «Il settimanale inglese “The Economist” ha previsto per il xxi secolo
una rinnovata Repubblica veneta sovrana in una federazione europea». In bocca sua, la storia è come la
pasta e fagioli, un piatto che più semplice non si pu . Forse è il momento di chiedersi che cosa sia
questo Veneto, se la sua chiave sia «la follia dei veneti» fiutata da Guido Piovene o se la politica abbia
qui scelto di travestirsi da pazzia per svelarsi e/o spiegarsi meglio. Me lo chiedo anch’io, come tanti,
veneto come sono dalla testa ai piedi, trevigiano, un po’ bellunese, un po’ padovano, veneziano per
passione ma veneto di terra, del contado, ben piantato dentro il «profondo Nord». Gli otto del
commando Serenissimo sono perfetti esemplari della piena occupazione del Nordest. Operai, un
artigiano, bravi elettricisti, assemblatori, periti meccanici, proprio quel che ci vuole per una galassia di
ottocentomila imprese piccole a volte come una famiglia di tre persone. Operai, che nemmeno sanno
che cos’è la disoccupazione, il disagio, l’angoscia del posto o del collocamento, la spietatezza della
emarginazione. Operai, perché la Lega da tempo ha sfondato anche nelle zone rosse, a Marghera o
Mira come a Sesto San Giovanni. «È il partito che forse ha lo zoccolo più popolare», ha osservato il
professor Diamanti, sociologo. Sono sparsi sul territorio, figli del policentrismo veneto, la città diffusa,
un paese dietro l’altro, cresciuti in via intensiva, come tagliatelle lungo l’asfalto. Non per nulla, la Lega
cala in città e tiene o cresce in un interminabile «non centro». Da lì sbuca il commando di San Marco.
Un Veneto più paesano che urbano, ex rurale, ex bianco, ex povero, ex bigotto, ma ancora nel cono
d’ombra della cultura contadina fondata sui salmi del lavoro. Questo Veneto invase Venezia per la
mucca pazza. Sa usare la città del mondo come vetrina dei conflitti, l’altra notte come miccia
irredentista. È un Veneto pochissimo veneziano. Mentre l’economia esplodeva con i distretti
industriali, Venezia perdeva milleduecento imprese: dalle tremilasettecentottanta del 1975 alle
duemiladuecento del 1996. Il raid dell’altra notte s’infila dentro un grumo di contraddizioni. I sassi
lanciati dall’autostrada e il record nella donazione degli organi, la furia degli schei e la legione dei
trecentomila volontari, una terra che conta all’estero milioni di emigrati e che respira a volte i gas
dell’intolleranza, una ottusa incapacità a capire il Sud. Ha perso ideologia, questo Veneto, gli steccati,
il voto in affidamento se non proprio di scambio. Il suo nuovo identikit è il territorio, questa nuova
categoria della politica che aspira a mettere mano alla forma di Stato. D’Alema lo ha capito con
chiarezza quando, proprio ieri – intervistato dal quotidiano «La Padania» –, ha detto: «Il voto leghista è
un voto di appartenenza, esprime modi di ragionare e cultura di una parte delle popolazioni del Nord».
C’è un Veneto dialettale, un gusto interclassista, che semmai si va irrobustendo. Bruno Visentini io lo
intervistavo in dialetto; Feliciano Benvenuti, conversatore sopraffino, ha il gusto del dialetto. Ma oggi
il dialetto di quel Veneto di paese diventa anche un’arma, una resistenza alla «globalizzazione», alla
lingua impersonale dello spot tv. A Rialto ho incontrato Giampaolo di Noale, trentacinque anni, con
«un figlio piccolo», mi ha subito raccontato. «Dopo Venezia, toccherà a Padova, a Treviso, chissà. A
Roma capiscono solo la lotta armata». Sento che un certo Veneto si sta perdendo, che rischia di
collassare su se stesso. C’è il pericolo che la scoperta del territorio finisca con il travisarne il senso: un
recinto, non un luogo di scambio, che era poi la specialità della Serenissima Repubblica. In piazza San
Marco suonano imperturbabili le orchestrine, ma qualcosa è accaduto. Il giorno del per promette peggio
di un raid scalcagnato e merita attenzione istituzionale. Delle istituzioni vere, se vogliono favorire un
Veneto senza per giustificazionisti. Il dialetto più sdrucciolo d’Italia si sta indurendo.
11 maggio 1997