1997 maggio 15 “Ecco i rischi del Veneto”
1997 maggio 15 – «Ecco i rischi del Veneto»
Venezia. «Terrorismo no, rivoluzione sì, Bicamerale forse»: dalla piazza televisiva di Gad Lerner è
partita la campagna d’estate di Umberto Bossi. Il barrito della Padania si leva più alto, a settembre del
1998 – minaccia il senatur – si saprà fino a dove, come, quanto, a prezzo di che. Vado a trovare
Massimo Cacciari in municipio, ma stavolta non cerco il sindaco. Mi interessa il professore, in
particolare lo studioso di teoria rivoluzionaria: «Forse me ne intendo», mormora a mezzo ciglio, «anche
se in piazza era impossibile spiegarsi, con quel casino piantato da deliranti sbandieratori». Cacciari,
non s’innervosisca: delirio o rivoluzione? «Mah, a volte Bossi sembra rendersi conto della pericolosità
della sua escalation, ma a volte è costretto a seguire la sua stessa logica. Lo si vedeva benissimo l’altra
sera: da un lato differenziarsi dall’atto terroristico, dall’altro…». La rivoluzione… «Il che è anche
efficace perché in effetti la rivoluzione si distingue dal terrorismo perché mobilita masse, perché la sua
azione è esplicita, trasparente. Ma attenzione: alla mia domanda finale, cioè che farete a settembre
1998?, il senatore Miglio è stato molto esplicito». Più di Bossi, mi pare. «Certo. Per Bossi basterà
alzare il pugno, staccare un fuscello dall’albero e tutti se la daranno a gambe. Miglio ha detto: è
l’Algeria? Fidarsi della debolezza e della totale inesistenza dello Stato perché la rivoluzione prosegua
“pacificamente” è un gioco che è riuscito a Mussolini, a Hitler. Ora, non voglio fare paragoni, sarei un
pazzo, bisogna sempre mantenere il senso delle proporzioni, ma da un punto di vista teorico un
processo rivoluzionario pu anche essere pacifico». Ne è sicuro?, io meno se posso esprimermi. «Sì, gli
sbandieratori potranno darmi un cazzotto, mi potranno far bere l’olio di ricino, non lo so…, per
intendiamoci sul termine “pacifico”: una rivoluzione pu avvenire all’interno delle istituzioni laddove
lo Stato sia totalmente disgregato, a pezzi, com’era nel caso italiano o tedesco, con fascismo e nazismo.
Pu accadere così, ma è un bel rischio». Per chi professore? «Se a quel punto trovi la reazione della
parte istituzionale, allora dovrà essere l’Algeria di Miglio. È un rischio che devi correre, come lo
correvano i grandi rivoluzionari, da Robespierre a Lenin. La battuta di Bossi sull’arma deposta ai piedi,
come pronta, non è più una metafora. O, meglio, pu non diventare più una metafora. È un’arma e
basta». Lei è tra i pochi che hanno sempre preso sul serio Bossi. «Per carità, sto facendo distinzioni
accademiche sulla rivoluzione. Tuttavia il problema esiste ed è grande come una casa: siamo di fronte a
una evidente escalation. L’azione terroristica di San Marco non ha nulla a che vedere con la Lega, per
si alimenta dentro un clima ben preciso». Dunque meglio disilludersi. «Per rendere ingovernabile
questo Paese non occorrono eserciti o manifestazioni di massa: bastano dieci nuclei di persone pronte a
tutto. Mi pare onestamente che Bossi questo pericolo lo avverta, mi pare altrettanto onestamente che
non sappia come reagire! La situazione pu sfuggire di controllo a tutti, Bossi compreso». È il trionfo
della doppiezza, Bossi di lotta e di governo. «È una doppiezza obbligata, tipica di tutte le strategie
rivoluzionarie. Ora si tratta di capire fino a che punto Bossi intende giocarla, perché questa è una linea
molto dura. E anche fino a che punto ne sia consapevole». Piazza San Marco in tv: tra l’assalto al
campanile e lo spettacolo di intolleranza a Pinocchio, non saprei cosa scegliere. In peggio, intendo…
«Se questa è stata una prova generale della cultura della Padania, la trasmissione l’ha misurata, non c’è
dubbio. Una nuova repubblica che nasce sul principio ad excludendum, si diceva una volta, che non
assimila, non integra, ma al contrario promette un’entità chiusa, inospitale». Possiamo esemplificare?
«Non so se il pubblico televisivo ha potuto cogliere in quel caos, ma la tesi di Bossi è che gli insegnanti
meridionali avrebbero diseducato il popolo padano! Fino all’altro ieri ero preoccupato dall’idea di un
nuovo Stato del Nord, ma a questo punto sono più spaventato dal tipo di Stato! Ma che razza di Stato
sarebbe questo di Bossi?». Mi chiedo anche che razza di Nordest fosse quello dell’altra sera. C’è un
altro Nordest e non è quello, direbbe il professor Diamanti, del mito del «buon selvaggio»…
«Francamente chi poteva immaginare che un’azione come quella del campanile di San Marco
galvanizzasse un certo estremismo secessionista? Mi preoccupa moltissimo che una certa subcultura
del Veneto possa entusiasmarsi per quel commando, ridotto a ragazzata. Qui non c’è esaltazione da
parte di due disperati. Quelli del Life sono un’espressione di un certo mondo imprenditoriale; quelli di
piazza San Marco si muovono con le loro bandiere, si esprimono in piazza, apertamente, sotto le
telecamere. Per tre quarti, il pubblico al di là del recinto era solidale, galvanizzato. Nemmeno i nostri
brillanti sociologi l’hanno sufficientemente valutato. Questa cultura veneta…». Ecco, lei tende di solito
a trascurare questo tumulto localista, che s’innesta con la protesta di quell’economia freschissima di
nascita descritta l’altro ieri da Pietro Marzotto. «Giusto, ma questo è un fenomeno generale. La
globalizzazione portata avanti come indifferenziazione, come distruzione di fatto di identità e
specificità, come massacro di culture, genera mostri. Genera inquietudini, paure, una competizione
sfrenata, che stanca, che sfibra, che fa mancare tutele e difese proprio da un punto di vista
antropologico». La penso, da tempo, allo stesso modo. «Una globalizzazione senza radici pu avere una
risposta anche nel federalismo». Non è un salto? «Un vero pensiero federalista è l’antidoto: pensare
insieme l’identità e l’universalità. Cioè pensare individualità universali, come era Venezia!». Che,
ritrovata qui, non nei suoi patetici patrizi di piazza, è come se non fosse mai caduta, se ho ben capito.
Ma solo in questo senso, no? «Venezia è il più grande esempio nella storia di universalità individuali:
fortissimo radicamente nella propria storia e nei propri miti e la capacità di guardare lontano, di fare
sistema. Ah, in questo l’altra sera è accaduto qualcosa di straordinario, su cui Bossi è scivolato via…».
Scommetto, i sindaci. «In quella bolgia incivile, quei tre sindaci di sinistra e leghisti [Fistarol, Covre e
Pasini, n.d.r.] che si sono dati la mano sfidando i discorsi di Bossi e Miglio, hanno una forza
emblematica enorme. Ma a Roma, porco demonio, capiranno che qui ci sono sindaci in trincea, che
tengono insieme la baracca, che continuano nonostante tutto a darsi la mano e a darsi una mano, e che
non bisogna spingerli a mandare tutto in malora?». La malora delle mancate riforme, credo. «L’altro
giorno alcuni geni di ministri sono venuti in Veneto [Costa e Treu, n.d.r.] a dirci che non è più tempo di
chiedere ma di fare! Ma cosa credono che chiediamo a Roma: che ci lascino fare! A uno con le mani
legate vengono a dire che non è il momento di protestare perché ti sleghi le mani, ma di darti da fare!
Ci prendono per i fondelli. Il problema non è di rispondere a Bossi…». A chi allora? «Ma a noi, ai
Covre, Illy, Fistarol, a questi Roma deve rispondere. Alle università, agli imprenditori». Chi o che cosa
ci manca? «Un De Gaulle senza Algeria. Una grande leadership riformatrice». C’è mai stato un
momento magico? «Tra il 1992 e il 1994, con i referendum, Mani pulite, l’opinione pubblica, ma ci è
sfuggito. Dobbiamo ricostruire l’attimo». Come? «Con un soprassalto di responsabilità. Una sorta di
emergenza albanese, di fronte alla quale non c’è destra o sinistra». Né distinzione tra politica e
imprenditoria. «Agli imprenditori lancio un appello: non pensate che le tigri vi portino più rapidamente
alla meta! O la catastrofe sarà per tutti». Bertinotti invita a non fare scambi istituzionali con Bossi. «Ma
Bertinotti deve trattare con me non con Bossi!». Si può spiegare?! «Sono io che gli chiedo che
l’articolo 5 della Costituzione venga cambiato per fare dell’Italia una Repubblica federale! Quale
Bossi?! Io, noi lo chiediamo! Qui ci giochiamo l’Italia, ne rispondiamo noi, non Bossi! Il federalismo
non è uno scambio con Bossi, ma un’esigenza del Paese». Bisogna trattare, dunque. «Certo, la politica
è anche mediazione. Con le br non tratto: perché non mi riconoscono come Stato, ma Bossi a questo
punto non è ancora arrivato». Ma lei come sindaco di Venezia ha davvero chiuso? «Sì». Neanche se
glielo chiede D’Alema? «Neanche se me lo chiede lo Spirito Santo!».
15 maggio 1997