1998 ottobre 28 Perché Bossi è tornato alla ragione
1998 ottobre 28 – Perché Bossi è tornato alla ragione
Umberto Bossi cambia strategia, toni, bussola, ma è oggi che fa finalmente la cosa giusta, mica ieri. Era
ora che ratificasse con un Congresso l’abbandono degli incubi e il ritorno alla ragione, anche in
coerenza con l’habitat socioeconomico cui si richiama. Il Nord non è una gabbia di matti, semmai un
territorio dove un punto di variazione del tasso di sconto vale più di tutti i miti celtici messi assieme.
Un destino da manicomio fronteggia piuttosto Liga e Lega. La prima, per niente autonoma rispetto alla
seconda ai tempi del secessionismo a diciotto carati, spacca ora tutto per fare politica autonoma proprio
quando l’intero movimento ritorna alla politica. Sono entrambi ritardatari Bossi e Comencini, quasi
fuori tempo massimo entrambi: fanno «dopo» quello che avrebbero potuto fare «prima» con beneficio
di entrambi e, soprattutto, del nostro Paese. I pluricongressi di San Martino di Lupari, di Bassano e di
Brescia hanno illuminato a giorno questo sfasamento generale, che trova Bossi e Comencini separati
nell’esatto momento in cui sono più vicini nell’analisi. Quando, cioè, a essere ancora più dettagliati, il
ritorno di entrambi alla via federalista avrebbe dovuto sanare ogni vertenza: se il secessionismo piegava
il Veneto alla Padania, e non poteva che essere così, il federalismo lo rimette al centro del Nord per il
suo peso elettorale. Un clamoroso errore, sia di Bossi sia di Comencini. Di Bossi per aver snaturato alla
radice il potenziale riformista della Lega; di Comencini, per aver trasferito supinamente alla Liga la
linea senza uscita dei lumbard. Bossi cambia perché confessa l’errore, non per trasformismo. Ritorna
con i piedi per terra, spegnendo la luce su una fase malata, infruttuosa e bosniaca della Lega Nord. Nel
rimirarsi allo specchio deformante della Padania, Bossi aveva come scordato che in arrivo si
annunciava soltanto l’Europa. Bene, se Dio vuole, ora è finita. Bossi non ha cambiato idea, ci
scommetterei, ma ha preso atto del travisamento, e questo per l’appunto rappresenta nel suo caso il
ritorno alla politica attiva, via dalla parata. Si è realisticamente reso conto che il mito padano aveva
fatto in fondo una sola vittima: lui. Con sommo gaudio dei conservatori d’ogni sponda, cui non pareva
vero che il separatismo offrisse gratis un alibi di ferro per dire no al cambiamento. Finalmente in
assetto da politica dopo due anni e passa, Bossi ricomincia da capo, da dove aveva abbandonato le
riforme. Non solo: da dove aveva mollato ogni influenza di governo, dunque ogni forza contrattuale.
Mea culpa, mea maxima culpa. Due gli scenari. Se la legislatura di Massimo D’Alema tiene, ci sarà per
lui da lavorare a fondo fino al 2001, il che significa in pratica «da qui all’eternità», con amplissima
probabilità che possano mutare tutti i dosaggi elettorali della transizione perenne. Lascia pure che i
sondaggi fatti in Casa Berlusconi diano oggi la Lega Nord al quattro per cento: come dimostrò il voto
politico del 1996, contano soltanto quelli effettuati l’ultima settimana elettorale. Campa cavallo. Non
va tuttavia escluso che la coppia Cossutta & Cossiga, al pari di quelle Bossi & Fini nel 1994 o Prodi &
Bertinotti quest’anno, frani in politica estera o sulle pensioni tanto per fare un’ipotesi. Qui, in questa
oggettiva debolezza di D’Alema, pu ritrovare ruolo Bossi, come già sperimentato nel 1995 con Dini. È
infantile chiedersi se Bossi farà da stampella alla «sinistra» quando, in un sistema sregolato, tutti a
turno sono stati stampella di tutti, come facilmente dimostrabile. Bossi non può che usare il suo
«centro» politico, e parlamentare, per condizionare leggi, scelte, riforme, rapporti di forza. Gli si poteva
chiedere di archiviare il separatismo, non si può pretendere da lui di abbandonare gli «interessi» del suo
Nord, vale a dire la ragione sociale della Lega, per coltivare l’«interesse» di Berlusconi. Anche se
condivide con Giulio Tremonti il «popolo delle partite iva», è su Berlusconi che Bossi si separa
irrimediabilmente dal centrodestra. Qualcuno dovrebbe farsene finalmente una ragione: a guardar bene,
in ciò Bossi coincide con Cossiga e fa ritrovare curiosamente assieme i picconatori dei primi anni
novanta. Interessante più di ieri diventa il Veneto, dopo la resipiscenza di Bossi. Il perché è chiaro: a
questo punto, qui nasce una sorta di partito unico federalista con quattro correnti interne: Galan,
Cacciari, Comencini, Bossi. Anzi cinque, se aggiungiamo i «serenissimi». Diversissimi tra loro,
propongono tutti la stessa offerta politica, che parte dall’autonomia federalista. Basti pensare che,
rispondendo ieri a «Repubblica», Bossi ha elencato le prime richieste da rivolgere al governo D’Alema
cominciando dalla… «Pedemontana e dalle quote latte». Più realismo di così si muore. Al di là del
teatro, voglio proprio vedere come sapranno distinguersi alle elezioni regionali, naturalmente nel nome
del federalismo più doc. Ci mancavano solo due Leghe. Non invidio Comencini: rischia di essere
assorbito o da Galan o da Cacciari. Federalisti per federalisti, forse gli converrebbe ancora Bossi. La
politica italiana dimostra a iosa che nessuna pace e nessuna guerra è definitiva.
28 ottobre 1998