1998 settembre 19 Padania addio, il Veneto se ne va
1998 settembre 19 – Padania addio, il Veneto se ne va
La colpa è tutta di un trentenne padovano di Conselve, residente ad Agna, famiglia di piccoli
imprenditori: Fausto Paolo Faccia, nome di battaglia «boss», un anno di galera e tanti di condanna per
aver capeggiato gli otto «serenissimi» del campanile di San Marco. È lui che ha complicato da morire i
piani di Umberto Bossi, lui che ha fatto capire a Fabrizio Comencini la differenza tra Veneto e Padania,
tra Liga veneta e Lega Nord lumbard. Cioè la madre di tutte le differenze. È tutto scritto, detto, noto e
datato. 1996, Bossi lancia la secessione della Padania. 1997, i «serenissimi» proclamano l’indipendenza
del Veneto. 1998, tra Bossi e la Liga veneta si registra il minimo storico d’intesa. Fatto. Non c’entrano
le gelosie; è un fatto politico. Per la sua Padania, Bossi aveva bisogno di una viribus unitis, uno per tutti
tutti per uno, la scomunica del frazionismo, la fine del federalismo sia esterno (Italia) che interno
(Lega). Per far funzionare a vita il giocattolo del separatismo, a Bossi non serviva una Liga veneta
nostalgica del Veneto, ma un docile serbatoio di voti per i «supremi interessi» della Padania. Con
questa fissazione, a metà tra il dottor Stranamore e Ponte di Legno, Bossi non poteva augurarsi nulla di
peggio dei «serenissimi» di Faccia. Il campanile è stato un inferno per Bossi. Gli ha fatto scoprire in un
colpo solo quello che lui bolla come «nazionalismo» veneto, venetismo, localismo. Gli ha mostrato il
leone di San Marco che si sbrana il sole celtico. Gli ha fatto toccare con mano che l’autonomismo qui
batte dieci a zero il padanismo. Ma il campanile, questo il bello, ha finito con il dimostrarsi ancora più
esplicito proprio nei confronti della Liga veneta. A differenza di Bossi, che per settantadue ore restò
incapace di intendere l’accaduto, Comencini capì al volo che stava per girare il vento. Quel blitz
spontaneo avrebbe funzionato come una bomba a orologeria, ben oltre le intenzioni e le aspettative: il
perdonismo e/o la simpatia dell’opinione pubblica veneta provavano che la Padania era una creatura
artificiale. Il Nord della stragrande maggioranza dei veneti non era il Nord di Bossi; non era un «altro
Stato» a tavolino ma uno Stato riformato a fondo; non era un monoblocco padano a guida lumbard ma
un Veneto il più autonomo possibile: «indipendente» in un’Italia federale almeno quanto
«indipendente» dal mito del Po. Giusto o sbagliato, non è questo il punto. Sta di fatto che, dopo il
campanile, il Veneto tornò al centro, diventò un caso a sé. Si fece spernacchiare, studiare o capire, ma
come un qualcosa a sé, di speciale, accelerando il corso della politica in una sola direzione. Comencini
accentuava la via veneta al leghismo. Galan diventava via via una sorta di leghista del Polo. Lo stesso
Cacciari, introdotto all’autonomismo veneto da Rocchetta, finirà con lo scrivere ai «serenissimi» nel
tentativo di ricuperare il buono di un episodio sbagliato. È da allora che lo «statuto speciale» prende a
far parte del passaggio istituzionale del Veneto, quasi una carta di accesso, il minimo per cominciare a
ragionare sul futuro del territorio. Non a caso Cacciari sorride con una battuta: «Chiedere oggi ai veneti
se vogliono lo statuto speciale – dice – è come chiedere loro se vogliono vincere la lotteria di
Capodanno». A loro insaputa o no, poco importa, i «serenissimi» hanno spinto la Liga a essere più Liga
e Bossi a ringhiare come un dobermann sugli autonomismi e sulla dis-unione della sua Padania del
quarto millennio. Si è creato via via un clima, una pressione, un’aura. Bossi non teme l’alleanza
ComenciniGalan. Fiuta un rischio assai peggiore per lui: l’esproprio dal «comune sentire» di
quest’area, una sorta di trasversalità dell’autonomia che da un pezzo dà per morta e sepolta la Padania.
Bossi teme che Comencini prenda coraggio, si dia una linea politica, faccia fruttare i tanti voti che ha,
sottragga ai lumbard il diritto di vita o di morte. In parole poverissime, teme che la Liga si metta in
proprio, favorendo la crescita di un suo ceto politico e trattando alla pari con Galan e Cacciari senza
dover attendere l’imprimatur o la bolla di Bossi. Era ineluttabile, scritto nel Vangelo. Se non è accaduto
prima, è perché tanti dirigenti e parlamentari della Liga veneta sanno issare il Leone ma non hanno
cuor di leone. Temono di diventare tante Pivetti, isolati nell’eresia, circondati dalla maggioranza
silenziosa di moderati e astensionisti ma braccati da militanti, duri e puri, fedelissimi, ineffabili
pasionarie del «Capo». È la solita storia. Se il Veneto aspira a un ruolo o se ratifica a vita la sua
subalternità; se il leghismo veneto ha stoffa di leadership oltre che voti o se deve sentirsi prendere per i
fondelli un giorno nel nome della solitudine un giorno nel nome di Cossiga; se e dove sta scritto che il
politburo lumbard pu fare e disfare linea in trattoria quando ai veneti è vietato persino di pensare. Al
massimo di dire «obbedisco». È una cosa seria, molto seria. Ma è tutta qua: con il secessionismo, Bossi
ha perso due anni; ora non vuole perdere potere. Lui lo sa, ma non sono sicuro che la Liga veneta lo
sappia quanto Umberto Bossi.
19 settembre 1998