1999 Il grande Torino leggenda e sogno di atleti eterni

1999 – Il grande Torino leggenda e sogno di atleti eterni

E’ un ricordo in bianco e nero, niente televisione né moviole né mai dire gol, niente; un mito senza
mitomani, una memoria senza bancarelle, una squadra di calcio che si fa precedere da un aggettivo
maiuscolo: Grande, il Grande Torino, o lo chiami così o non è. Come la Grande Guerra. Sotto
mezzo secolo di polvere, quel Torino resta il sogno di una squadra di calcio: perciò non muore,
perché i sogni aiutano a vivere direbbe l’implacabile Marzullo, e tornano sempre.
Da ragazzo ero interista fino alla paranoia ma, fossi nato qualche anno prima, sarei stato torinista,
anzi torinista “tremendista” come scriveva Giovanni Arpino.
Ne sono certo perché era una squadra espansiva, estroversa, chi la frequentò o ci giocò contro ne ha
sempre ricordato “l’allegria”. Ecco, l’allegria è l’anima del football, così come la vedono i brasiliani,
a cominciare dai carioca di Rio. Ma a Rio è un dono del sole, a Torino era l’invenzione di un gruppo
di campioni, il nostro wunderteam, lo squadrone delle meraviglie, il nostro Brasile era il Torino.
Per questo fu un dolore speciale, per la sproporzione tra l’allegria e lo schianto, come raccontarono
allora cronisti altrettanto speciali. Scrisse Dino Buzzati: “Privilegiati dalla sorte sembravano. Dio
mio, come ha fatto presto la morte a trasformarli. Lavora a precipizio la morte, in questi casi”. E
Indro Montanelli: “ Già domani l’erba comincerà a crescere sulla tomba di quei diciotto giovani
atleti che sembravano simboleggiare una omerica, eterna, miracolosa giovinezza”.
Buzzati e Montanelli mal hanno avuto la lacrima facile, semmai rappresentano l’Italia anti-retorica.
Però il Torino diceva un sacco di cose, anche non strettamente sportive: era un pezzo d’Italia, anzi la
sua più aggiornata autobiografia. Vinceva prima della guerra e tornava a vincere dopo, anche se era
stato costretto per anni a oscurare gol, dribbling, ovazioni e scudetti. Come Bartali nel ciclismo, una
generazione spaccata in due. In ogni senso l’Italia provava a tornare in campo, tra sberle sul muso e
diffidenze. Un sacco di Paesi avrebbe voluto boicottare la nostra Nazionale, ancora fresca di saluto
romano al duce, e, non fosse stato per la neutrale Svizzera che ruppe il ghiaccio internazionale,
chissà quanto tempo ci avrebbero tenuto in quarantena.
Il Grande Torino provvedeva anche a questo, a restituire reputazione e simpatia a un Paese come il
nostro, ferito in lungo e in largo. Era in fondo lo stesso dignitoso lavoro che impegnava Alcide De
Gasperi, faccia all’Europa, e non fu la prima né l’ultima volta che sport e politica sopperirono alla
stessa bisogna.
Mi sarebbe piaciuto da morire vedere giocare Valentino Mazzola, che del Torino era l’ormeggio, in
campo e in spogliatoio, nel trattare gli ingaggi per tutti come nel dettare gli schemi meglio di un
metronomo di musica. Gianni Brera lo considerava il paradigma, “l’atleta naturale” lo definiva e,
per dire al massimo la sua bravura, ricordava sempre il provino a piedi scalzi a Venezia.
In base a ciò che ho sentito, lo immagino come Bobby Charlton, come Alfredo Di Stefano, come un
Franz Beckenbauer giovane. E’ gente senza ruolo perché li assorbe tutti, escluso quello di portiere.
Hanno una visione satellitare del gioco; gli altri vedono un pezzo di campo, loro tutto, infatti gli
olandesi li avrebbero più tardi definiti giocatori “totali”.
Una volta ho chiesto a Zico di dirmi con una sola parola che cosa fosse per lui il calcio. Mi rispose:
“Uma allegria”. Invece Cruyff mi sintetizzò: “Una geometria”. In Zico parlava il Brasile, in Cruyff
l’Europa, la stessa fantastica e insuperata geometria dell’Ungheria anni ’50 di Hidegkuti, che seppe
vincere anche una grave forma di anemia. Dev’essere stato come Hidegkuti, Valentino Mazzola.
Pensa le stranezze, anche le impalpabili allusioni del destino. L’ultimo gol segnato del Grande
Torino fu di Mazzola, e lo segnò a un portiere dai riflessi di gatto, Bepi Moro, trevigiano di
Carbonera.
Dopo Superga, il Torino tornò in campo a Venezia, l’undici settembre del 1949, con Bepi Moro in
porta, chiamato a sostituire il leggendario Bacigalupo. In quella maglia, in quella partita, su quel
campo oppresso dai ricordi, Bepi Moro parò un rigore e il Torino vinse uno a zero.
I Grandi Ricordi come il Grande Torino continueranno sempre a raccontare storie e magie. Sono
l’infanzia della vita, la sola che non invecchia con noi.