2000 Australia-Italia. Non è solo calcio
2000 – Australia-Italia Non è solo calcio
A quei tempi non lo chiamavano Nordest; più che altro, si diceva Trentino, Veneto,
Friuli, anche se la provincia di Udine faceva parte della Venezia Euganea. Un altro
mondo, con due caratteristiche in comune: era agricolo e migratorio; la terra era tutto
ma non bastava, e bisognava andare via a catàr fortuna, come ricorda Ulderico
Bernardi, anche nella sterminata Australia, grande 25 volte l’Italia. Oggi proprio
Australia-Italia di calcio tiene a battesimo l’Olimpiade e non può essere un caso: se lo
sport è anche la più popolare delle suggestioni, oggi la prima mondovisione dei
Giochi manderà in onda gol e retro-pensieri lunghi come generazioni. Persino
l’Australia è un po’ Italia, a cominciare dal sindaco di Sidney, Frank Sartor, che di
australiano ha soltanto quella “k” nel nome di battesimo.
Frank, ingegnere chimico, è figlio di Cesare, trevigiano di Onè di Fonte, e di Ida,
padovana di san Giorgio in Bosco, contadini: “Non avevamo trattori, niente, soltanto
fatica e fame”, mi ricorda lo zio di Frank, Riccardo Sartor, che ha un bar a Fonte Alto.
Non restava che tentare: “Prima andò via da solo – aggiunge – poi chiamò la fémena e
i fiòi, sette, otto. Frank è cresciuto in gamba: l’anno scorso è tornato a trovarci, lui è
un tipo sicuro, spicciolo…”.
Nato in Australia da genitori veneti, da nove anni sindaco di Sidney, Frank Sartor dice
di ricordare 50 parole in italiano in tutto, ma con cinque elenca l’eredità di famiglia:
“Forza, lavoro duro, onestà, coraggio”. Voglio vedere chi parla di retorica.
Starò invecchiando, ma ogni volta che m’imbatto in storie di emigrazione, sento che
non facciamo mai abbastanza per ricordare. E se i ragazzi non ricordano, è colpa dei
padri, non loro, perché soprattutto noi abbiamo la memoria corta: consumiamo ricordi
come patatine fritte.
I primi trentini a imbarcarsi per l’Australia furono gli arrotini della Val Rendena, ai
quali era sconosciuta la parola “riposo”, che si piazzarono lungo le città della costa,
per prima Sydney. Dalla Val di Non partivano contadini portatori di un’antica perizia
nel coltivare frutteti anche se i braccianti erano pronti a tutto, nelle cave, nelle
miniere, in fabbrica, negli allevamenti di bestiame.
Una ricercatrice veneta, Francesca Massarotto, che ha studiato a fondo l’emigrazione
trentina al femminile, ricorda difficoltà d’ogni sorta, fino ai recenti anni Sessanta. Alle
donne imbarcate sull’Oceania, un missionario raccomandava: “Non fate i gradassi,
che siete in casa d’altri; cercate di parlare poco finché non vi siete inserite e non
usate parole italiane come “basta”, perché gli australiani capirebbero “bastard”,
sanguinario”.
Nel romanzo di una scrittrice italo-italiana si legge: “Hai tutti contro, la lingua, i
paesani, tutto, se dici mamma col tuo inglese questi capiscono cazzo e se dici papà
capiscono tegole, ecco il risultato”. A ondate partivano, ed ogni dopoguerra
alimentava l’onda di piena.
I veneti ne sanno qualcosa, su su fino alle soglie del boom economico. Forse pochi
possono ricordare che, tra il 1951 e il 1956, il Veneto era ancora l’unica regione in
Italia che perdeva popolazione! Nonostante il saldo ampiamente attivo tra nati e orti,
il deficit era rappresentato dall’emigrazione, ancora massiccia, a colpi di decine di
migliaia anche verso l’Australia dei canguri, fantastica come un racconto di Salgari,
dove sarebbe sorto ben presto un villaggio battezzato Cèa Venèssia, poi cresciuta con
il nome meno poetico e più anglosassone di New Italy.
Gli azzurri della Nazionale di Marco Tardelli vengono solitamente chiamati
“azzurrini”, in omaggio alla prima scelta di Trapattoni, anche se sono tutti
svezzatissimi. Loro sono lì, all’altro capo del mondo, per vincere, però già oggi si
renderanno conto di alludere a qualcos’altro. Più che calciatori, sono “gagliardetti”,
come mi fu detto qualche anno fa in un club di emigranti italiani a Buenos Aires.
Come tutti sanno, l’Australia fa parte del Commonwealth, che sarebbe quel che resta
del fu Impero di sua maestà britannica. Beh, a ben riflettere, anche l’Italia ha il suo
Commonwealth sparso per il mondo, con la sola differenza che il nostro di imperiale
non ha nemmeno l’ombra: il nostro Commonwealth fu fondato dalla disperazione,
dalla speranza, dalla voglia di mandare a farsi benedire un destino ingeneroso, a Onè
di Fonte o in Val di Non.
Spero che gli azzurrini ricordino tutto; se poi vincono, meglio. Frank Sartor, sindaco
di Sidney, ha vinto prima di loro e senza titoli a nove colonne.
Nessuna Olimpiade è mai stata un risultato nudo e crudo. L’Olimpiade è sempre una
allusione in grande stile.