2000 Ma in quello stadio ci volevano le manette
2000 – Ma in quello stadio ci volevano le manette / A Como ci volevano le
manette
Si sarebbe tentati di dire che in coma è il calcio, non un povero calciatore parmense
che col suo Modena giocava a Como. Il calcio si quota in Borsa ma si squalifica allo
stadio, ora violento, ora truffaldino, ora razzista, ora drogato, ora simulatore, adesso
vendicativo e belluino anche nello spogliatoio, che dovrebbe funzionare invece da
camera di decompressione. Si sarebbe anche tentati di rifugiarsi alla svelta nel piccolo
mondo antico del football, sfogliando qualche sua pagina ingiallita. Oggi alla guida
del sindacato dei calciatori, l’avvocato Campana concluse una lunga e onoratissima
carriera senza espulsioni e senza squalifiche. Facchetti, ventoso terzino d’ala della
grande Inter, ruppe l’incantesimo disciplinare soltanto per aver applaudito in segno di
scherno l’arbitro di un derby. I Campana, i Facchetti, i Baresi di uno storico Milan
sembrano quasi personaggi letterari, tra Fogazzaro e De Amicis, di un modello
perduto: un calcio gandhiano, se posso esagerare, edificante. Se ora un calciatore-
capitano di 26 anni pesta un calciatore-bandiera di 33, a sangue freddo, e se una
partita di serie C si conclude in Neurochirurgia, la tentazione della nostalgia e della
rimozione diventa davvero forte. Ricordo Nereo Rocco quando, una trentina d’anni fa,
si dimise dal Milan; prese il telefono e chiamò la moglie a Trieste: “Maria Barzin, va
in cantina e prendi due bottiglie che stasera son a casa!”. La saggezza si faceva un
baffo dello stress; gli alti e bassi della panchina non diventavano mareggiate del
vivere; cin cin consigliava il paròn.
Però dobbiamo stare attenti alla poesia. Anche quel mondo era tutt’altro che idilliaco;
più artigianale e meno smisurato, non esente da raptus, dai veleni, dagli eccessi. Una
volta intervistai Gianni Rivera, che mi confessò: “Ho pensato seriamente al suicidio,
e ne sono uscito perché sono riuscito a sopportare fino in fondo tutto quanto è stato
detto di me”. Erano passati pochi mesi dalla Corea della nostra e della sua nazionale.
Il calcio plebeo nell’anima ha sempre mietuto le sue vittime. Nonostante i contratti in
dollari e il set televisivo permanente, canta la sua messa domenicale a suon di
gomitate, agguati, sputi e moccoli: quando osserva le regole, diventa una parabola del
gioco di squadra; quando le mette sotto i bulloni, celebra l’incultura del gesto.
Qui non si tratta di fare i moralisti in servizio permanente effettivo, ma di capire cosa
sta succedendo, non soltanto a Como. Una cosa è sicura: Como rappresenta il
massimo, la febbre ultima, il limite se non proprio la tendenza di fine secolo. Non c’è
un oltre.
Persino di Primo Carnera si diceva che era il gigante buono del ring: dietro il pugno
di ghisa si nascondeva un uomo dolce. Il boxeur della domenica, Massimiliano
Ferrigno, celava rancore, soltanto cattiveria, una testa livida. Ha colpito senza
movente razionale, per “futili motivi”, dice la legge, prendendo il calcio per una faida
personale, quasi un regolamento di conti che non prevede nemmeno la fine del
novantesimo minuto e che trasforma in una questione d’onore le piccole, normali
beghe di una partita di nerbo.
Uno così andava arrestato: intanto va dentro, poi si vedrà. Questa non è violenza
sportiva, sul campo sempre esecrabile ma almeno mitigata dal corpo a corpo. C’era un
mitico e imbrillantinato allenatore argentino, Juan Carlos Lorenzo, che dalla sua
panchina urlava: “Pierna! Pierna!”, gamba in spagnolo, un mezzo incitamento a
delinquere.
Il pugno di Como è mille volte peggio perché non ha alibi, nemmeno quello del
sudore e della testa calda. È violenza privata, sincope del fair play.
Una domenica di vent’anni fa misero le manette a dodici giocatori, già allo stadio, per
lo scandalo del toto-scommesse. Sarebbe stato consigliabile usare le manette anche
domenica scorsa: a volte la giustizia conviene che sia esemplare, visto che soprattutto
i fenomeni di massa si nutrono di simboli.
Sento già la solita litania del giorno dopo, che consiglia di puntare sulla prevenzione
non sulla repressione. Sarebbe ora di smetterla con questa manfrina, che né previene
né reprime giocando eternamente sul diritto di precedenza tra il momento “culturale”
e il momento “disciplinare”. Basta.
Se il pubblico degli spettatori è un problema di ordine pubblico, i calciatori-attori
della spettacolo sono una questione da codice penale, da codice sportivo e da codice
di autodisciplina. Ha annunciato il presidente del Como: “Nella mia squadra uno che
fa questa cose non giocherà mai più”. Bene, benissimo, a patto che non rimanga un
gesto isolato in un mare di ipocrisia e di interessi da cortile.
Il calcio deve fare i suoi conti, a corda già tesissima. L’altro ieri il coma, oggi le
partite truccate, domani chissà, mentre gli stadi mobilitano anche 600/700 agenti e
carabinieri a domenica. Anche ammesso che il pugno di Como fosse catalogabile
come una pazzia, al calcio conviene considerarlo un frutto del suo malessere.
Gli conviene farsene carico, al cento per cento.