2000 ottobre 22 Maratona, la gara più dura nel posto più bello

(22 ottobre) 2000 – Maratona, la gara più dura nel posto più bello
Da Villa Pisani a Stra sino al sestiere di Castello una fatica solitaria che costringe gli
atleti a leggersi dentro

Il primo maratoneta che si conosca, Filippide, morì stecchito sul traguardo. Correre 42
chilometri e 195 metri, cioè 26 miglia, è lo sport estremo delle Olimpiadi: il suo
poster storico dovrebbe fissare la smorfia di Emil Zàtopek o il piede nudo di Abebe
Bikila. Una fatica off-limits, che ai primissimi maratoneti moderni aveva consigliato
goliardici trucchi e inganni chimici: ci fu chi si fece squalificare per aver corso un bel
po’ nascosto in un carro di fieno e chi, come Thomas Hicks o Dorando Pietri, buttò
giù solfato di stricnina come fosse Gatorade.
Quando a Montreal e a Mosca ho visto vincere due volte consecutive il tedesco
dell’est Cierpinski, ex siepista senza storia, mi sono reso conto che il mito dei miti di
Olimpia era malinconicamente precipitato nel cesso di un laboratorio. Per fortuna,
tornò la stagione a misura d’uomo dei Bettiol, Pizzolato, Bordin, e fu subito Venice
Marathon.
Venezia ha copiato New York, New York non potrebbe copiare Venezia, che sta
benissimo su internet ma che potrebbe mostrarsi con naturalezza anche su un affresco
di G.B. Tiepolo.
Qui si corre una maratona e un lungometraggio dello sguardo, dal Brenta delle ville a
Venezia, la città che fece scrivere al premio Nobel russo Iosif Brodskij: “l’occhio
precede la penna”.
Non so niente di questa maratona, ma so che seimila iscritti vogliono dire molto. La
selezione dei primi diventa la festa degli ultimi; l’aura prevale sull’exploit e il sogno
dell’io c’ero sui microchip attaccati alla caviglia come a Sydney ai lacci delle
scarpette.
Anni fa, visitando la villa di Stra, ho camminato tra le siepi del Labirinto, metafora –
io credo – dei passi perduti, ciechi, smarriti e finalmente alla meta del vivere.
Dimenticate ogni labirinto; la maratona è una solitudine rettilinea che domanda
silenzio. Non dico il leggendario silenzio di un Paavo Nurmi, ma davvero silenzio, del
corpo e della mente, quasi uno yoga in corsa.
Chi ci prova lo sa. Su certe distanze del fondo, la corsa diventa anche un esercizio
socratico, persino freudiano. Ti conosci, ti leggi dentro, ti ascolti; il battito del cuore,
la cadenza del passo, la perdita d’acqua, la crisi di sali, l’elasticità del muscolo, la
soglia di resistenza, il cedimento come un’ombra lunga, l’arrivo per miraggio, il
traguardo come un ultimo dosaggio di sé.
La Venice Marathon, più di tutte le maratone al mondo, ti conduce nella città da
vedere.
Per contrasto, ogni maratona obbliga a guardarti dentro, dal primo all’ultimo anche
della classifica di questa sera. Si corre sull’asfalto o sulle pietre senza sprecare un solo
fiato, una sola sillaba, un solo pensiero. La maratona è la fatica all’osso, per questo si
distingue da tutto e chiude le Olimpiadi: come dire, dopo la maratona, basta, che altro
ci potrebbe essere?
La gente dell’atletica come Piero Rosa Salva (veneziano) e Enrico Jacomini (romano),
è gente un po’ speciale, che appena si ficca in testa un’idea la vuole alla svelta
cronometrare. È oramai una bella tradizione la loro maratona, quasi una nuovissima,
napoleonica “via Eugenia” da Stra al sestiere di Castello, ma proprio oggi, 22 ottobre
del 2000, ci sta a pennello anche in altro senso, in Veneto.
È roba di queste ore. Avevano tentato di trasformare Verona in una nuova
Norimberga nazista, e la storiaccia del professore mentitore è finita in vacca. Il Po

aveva tentato di fare il bis del 1951 in Polesine, ma argini, golene e uomini coraggiosi
hanno tenuto. La Venice Marathon, faticosa e festaiola, si porta via i cattivi pensieri,
proprio tutti.