2000 Quella squadra-famiglia alle soglie della serie B
2000 – Quella squadra-famiglia alle soglie della serie B
Cittadella Calcio
Da ragazzino sospettavo che le Mura di Cittadella fossero lì per proteggere come in
una favola la “Polenta”, il dolce nato una secolo e mezzo fa con il brevetto della Real
Casa Savoia, più squisitamente noto come “polentina” di Cittadella. A mangiarla con
troppa gola si rischiava il soffocamento, e poi mi incuriosiva la natura di un
ingrediente: lo “zucchero invertito”. Meglio non indagare. Scherzi a parte, queste
Mura sono particolarmente alte, mentre le porte celano lunghi cunicoli sotterranei,
perché la libera repubblica di Padova intendeva Cittadella come un bastione, la
risposta alla Castelfranco dei trevisani. Oltretutto, la Valsugana e la Postumia erano
vie battute da ogni risma di saccheggiatori nordici, con gli Ottoni che andavano e
venivano senza chiedere il permesso. A difesa, serviva la città murata, a cominciare
dalle sue “porte bassanesi”, le più munite, che uno studioso veronese considera le più
belle del tempo.
Mi ricorda questi appunti di storia (Al)Bino Rebellato, editore e poeta, un pezzo di
cultura veneta. A 86 anni, ha scritto diciotto raccolte ma si dichiara sempre alla
ricerca del verso che manca, come fosse la prima volta. Sorride con la levità di un
mandarino cinese perché la Rizzoli lo ha appena informato che, acquistati i diritti
dalla Rusconi, ripubblicherà i suoi libri. Lui non passa mai di moda.
Capelli bianchi come la luce, Bino Rebellato conosce Cittadella pietra per pietra,
come pagine di un romanzo storico. Avendolo incontrato per caso proprio al bar della
polentina, gli dico che ho fatto un salto qui per capire come mai una comunità di
18.666 abitanti sia sul punto di portare la squadra di calcio in serie B, appena un
gradino sotto il campionato dei Ronaldo. Cose da non credere, un diminutivo
(cittadella) che diventa superlativo (serie B).
Dato che i miei interessi si mostrano plebei, forse Rebellato preferirebbe raccontarmi
del latino maccheronico di Teofilo Folengo, da lui tradotto con maestria e
divertimento. Ma, per non deludermi, dice la sua: “Sa perché non sopporto il tifo
calcistico? Perché, a Cittadella come dappertutto oramai, si tifa per giocatori che
non sono mai del luogo. Oggi il calcio richiede razionalità e schèi, non poesia, però
io, confesso, non sono attaccato alla realtà”. Lo sussurra quasi scusandosi di una
indelicatezza.
La realtà è che Cittadella, dopo Padova, è il secondo comune della provincia per
reddito prodotto: 801 miliardi, secondo il dato di due anni fa, ora certamente
cresciuto. Dispone di 2.501 imprese, una ogni sette abitanti e mezzo, compresi gli
oltre quattrocento stranieri già iscritti all’anagrafe. Il fiore all’occhiello è l’industria
metalmeccanica; in testa, il gruppo Gabrielli.
Angelo Gabrielli, 74 anni, da 35 anni è anche un tutt’uno con il calcio di Cittadella,
come presidente o come sponsor, come azionista o come presidente honoris causa. A
volte, imprenditoria e hobby si tengono assieme come vite parallele.
Gabrielli è l’ennesimo prototipo nordestino. Trevigiano di Pederobba, a due passi dal
ponte di Vidor sul Piave, va a diplomarsi perito meccanico al “Rossi” di Vicenza, una
garanzia nella formazione. Anche se nessuno può nascere con il pallino della
siderurgia, comincia subito a raccogliere metalli d’ogni tipo, reticolati compresi, dalle
trincee del dopoguerra. Prende su i quattro figli, Piergiorgio, Andrea, Margherita e
Mariangela, e si trasferisce da Pederobba a Cittadella, che considera il posto giusto
per fare le cose in grande, uno snodo.
Il Gruppo Gabrielli oggi ha cinquecento dipendenti (mille con l’indotto) e quasi 850
miliardi di fatturato, una gestione iper informatica dell’azienda e una “mentalità
giapponese”. Per dire che i dipendenti non si fanno i fatti loro, invece sanno le cose,
partecipano.
Non circola elettrodomestico della Zanussi che non sia fabbricato con le lamiere
Gabrielli, fornitore anche di Riello, De Longhi, Merloni. Oppure, con altre
lavorazioni, di Telecom e, nei trasporti, di Iveco, cioè Fiat. Il figlio Piergiorgio, 45
anni, mi spiega che il padre capì prima di ogni concorrenza che anche le lamiere
dovevano mirare al “servizio del cliente”. Come un abito su misura, confezionato ad
hoc.
Sia come sia, Gabrielli senior ha il vizio del calcio. È juventino dalla nascita, con una
vecchia passione per Omar Sivori, lo scugnizzo argentino che poteva vincere da solo
una partitissima dopo aver fatto notte, fino all’alba della domenica, giocando a poker e
fumando una cicca dietro l’altra.
Sono gli anni sessanta e Cittadella non sembra a Gabrielli una gran piazza, nemmeno
per il calcio dilettanti, visto che Vicenza e Padova si portano via tutti i tifosi al Menti
o all’Appiani. Però ci vuole ben altro per scoraggiare un tipo come lui che in fabbrica
è abituato a snervare acciai ad alta resistenza.
Ci prova comunque, riuscendo un bel giorno a fondere le due squadre di Cittadella,
l’Olympia e l’Us. Detta così sembra un gioco da ragazzi, invece è un’impresa.
L’Olympia era la parrocchia, i cattolici, “i preti” dicevano i laici; l’Us Cittadellese era
socialista, più indipendente, “i rossi” diceva qualcuno, due anime, due rimandi, due
tradizioni popolari, il bipolarismo in campo.
Da allora, cambiano presidenze, gestioni, campionati, ma la bella storia del Cittadella
parte da lì. Dalla fusione e dalla famiglia; in qualche modo, il marchio Gabrielli resta
la materia prima o la scorta di magazzino.
Dieci anni fa la C2, cioè il professionismo. Due anni fa, la C1. Domenica prossima,
Pentecoste, forse la serie B, se batte il Brescello dal nome gentile o se pareggia alla
fine dei tempi supplementari. Due possibilità su tre.
Per chi non lo sapesse, una squadra di C2 costa tre miliardi buoni a campionato, una
di C1 dai quattro ai dieci miliardi all’anno. Il Cittadella si è via via confrontato con
città da 350 mila abitanti, con stadi da serie A, con nobili decaduti come Como,
Varese, Livorno, Lucchese, Spal, Reggiana, Cremonese.
Detto sottovoce, ha in media cinquecento spettatori, per neanche trecento milioni
d’incasso all’anno tra paganti e abbonati. In più, la quota di Euromop, uno sponsor
ecologico, e quella del Coni che però, dopo il crollo delle giocate al Totocalcio,
garantisce soltanto trecento dei 1.200 milioni promessi sulla carta.
Sicché i miliardi necessari a campare e, semmai, a vincere, sono nelle mani del
signore con la s minuscola. Cioè di Gabrielli junior, Piergiorgio, presidente da cinque
anni con il 50 per centro di azioni di famiglia, e di altri sei soci con l’altra metà della
società. Un notaio di nome (Maffei), un commercialista esperto (De Agostini) e
quattro imprenditori affiatati (Pavin, benemerito presidente della C2, Moletta,
Cervellin, Meneghini).
Non ci sono scappatoie, o si autofinanziano o si salvano con il mercato, magari
comprando a zero e rivendendo a mille. Ogni anno cedono i migliori del vivaio e
ricominciano da capo contando sul fatto che Inter, Juve, Milan, i grandi club, curano
oramai i vivai africani e globali, e dunque hanno bisogno che il Cittadella di turno
allevi, educhi e selezioni 230 ragazzi di qualità doc.
Il bello, anzi il brutto è che questi ragazzi debbono andare ad allenarsi a Galliera,
Tombolo, Vaccarino, Fontaniva, perché non hanno campi. La società ne aveva chiesti
a suo tempo almeno quattro, ma il Comune ha prontamente risposto con sei da tennis
al loro posto. È anche un po’ fantozziana la questione, dal momento che lo stadio da
quattromila posti (in serie B, per regolamento, ne servirebbero diecimila…) viene
dichiarato agibile di volta in volta, ha una pista di atletica del tutto inutile, lamenta
carenza di parcheggi e strangolamento progressivo degli spazi. Accadesse il prodigio
delle B, il Cittadella dovrebbe migrare a Vicenza (a 18 chilometri) o a Padova (una
trentina).
È strano questo strabismo tra il club e il municipio, che si affaccia sulla piazza con i
suoi curatissimi stemmi affrescati. Chiedo alla edicolante del centro, bionda e bella, se
al lunedì Il Mattino e Il Gazzettino fanno almeno l’esaurito con le cronache dei
successi. Beh, sì, vendiamo bene, risponde, però mitigando: “Al lunedì c’è anche il
mercato”.
A due passi, il padrone di un negozio di giocattoli, che si diverte con pasquinate
dialettali firmate Chico, ha una sua teoria sui ritardi dei politici, che ha messo in versi
un paio d’anni fa: “I spèta che vegna el tempo de’e votasion / per darghe el fumo sui
oci al povero cojòn”. Un sano disincanto di provincia, più vicino al “mi no vao a
combàtar” dei trevigiani che all’adrenalina delle bandiere granata già issate allo stadio.
Chiedo al presidente che cosa accadrà domani pomeriggio. “In ogni caso, grande
festa”, e ha ragione da vendere anche perché il Cittadella si è costruito una ottima
immagine, con una squadra disciplinata e senza protezioni: in tre anni, ha avuto in
tutto sei rigori a favore. Piergiorgio Gabrielli aggiunge: “I blasoni e la città contano
meno che nel passato; oggi conta soprattutto il club; la sua organizzazione, il suo
staff. Per questo nascono i Davide come noi in mezzo ai Golia di sempre”. Per farmi
capire, spiega che l’allenatore Ezio Glerean, un friulo-veneto di San Stino, ha l’aplomb
degli Zeman e dei Lippi.
Ho visto in Duomo che, essendo stati spesi 660 milioni per riscaldare d’inverno il
pavimento, l’arciprete ha chiesto ai fedeli di comprarsi le 220 mattonelle a
trecentomila lire l’una. Più della metà sono già state sottoscritte.
Uscendo da porta Padova, rifletto che dev’essere questa anche la parabola del calcio di
qui. Una famiglia con dei soci alla pari, un vivaio, buoni tecnici, 500 aficionados e
una mattonella dietro l’altra. Sennò, sull’uscio della serie B il Cittadella quando mai
arrivava?