1967 Giugno E adesso tocca alla Juve

1967, giugno

L’Inter, con lo scudetto, ha perduto anche l’ammissione alla Coppa ‘68
E adesso tocca alla Juventus!

La foto che riproduciamo a tutta pagina è una foto drammatica. E’ stata scattata il 25 maggio scorso
allo Estadio National di Lisbona. Il giovane con berrettino in lana verde e bianca è uno scozzese:
tifoso del Celtic. Sta baciando il prato al novantesimo della Finalissima di Coppa. Dopo qualche
secondo il berrettino bianco e verde si alzerà: ancora uno scatto sul prato per raggiungere Stein,
Gemmel, Chalmers. Un tonfo, uno scoppio di gioia troppo grande nel cuore. Quel giovane scozzese
che vedete nella foto è morto su una barella del pronto soccorso portoghese. Uno dei dodicimila
scozzesi presenti alla vittoria europea del Celtic.

Gli interisti venuti dall’Italia, quasi tutti con jet « speciali », furono circa milleduecento. Tra essi
non ci fu il morto. Ma una diffusa sbalordita fissità. Più che amarezza, un senso di disagio, di
smarrimento. La stessa sensazione avvertita dai tifosi interisti a Mantova. A Lisbona, l’Inter aveva
perso la Coppa ’67. A Mantova, la Coppa ’68. Quattro anni « internazionali » sono stati superati in
otto giorni. Superati, ma non cancellati. Che cosa ha fatto l’Inter in questi quattro anni? Che cosa, da
Vienna-64 a Lisbona-67? Ha dato due Coppe europee, due mondiali, una semifinale perduta ed una
finale perduta. Ha dato risultati, ma non solo quelli. Se a San Siro, in una notte di temporale, battè il
Benfica di Eusebio con un tiro di Jair Da Costa scivolato tra l’acqua e le gambe di Costa Pereira, a
Vienna l’Inter chiuse l’era del favoloso Real. Stroncò due volte le velleità dell’Independiente.
Ridimensionò le maggiori rappresentanti dell’atletismo anglo-tedesco. Giunse, quest’anno, a
infliggere al Real Madrid, a Madrid, una umiliazione che gli spagnoli non avevano mai conosciuta
al Chamartin: minuti di melina condotta dalla « senorita », da Luis Suarez, il giocatore più fischiato
d’ Europa. Questo ha fatto l’Inter in quattro anni internazionali. Lo ha fatto per se stessa, per il
« suo » pubblico. Ma i risultati dell’Inter li ha sfruttati anche il pubblico italiano. E’ l’Inter, in questi
quattro anni, che ha monopolizzato l’Eurovisione. E’ l’Inter che, con una continuità spesso
sbalorditiva, ha tenuto il pubblico italiano aggiornato sul calcio internazionale. Helenio Herrera si è
costruito in Eurovisione una scheda personale di assoluto prestigio. Le convocazioni didattiche in
Inghilterra, in Russia nacquero come conseguenza di ciò. Questa è la verità: in un’orgia di coppe e
coppette perdute regolarmente da tutte le squadre italiane, rimaneva una testa di ponte di grandi
performances. Soltanto distorsioni faziose e sciovinisti che hanno potuto contestare questa realtà.

E adesso tocca alla Juve! La Juventus, sul piano internazionale non esiste. La prova di maggiore
attualità è questa. Nella prossima Coppa dei Campioni, dopo le battaglie sostenute da anni da Inter
Real e Benfica, verranno introdotte le « teste di serie », per impedire che, già nei primi turni,
sorteggi omicidi provochino lo scontro diretto dei grandi club europei. Proprio in questi giorni
dunque, dopo la conquista dello scudetto e quindi l’ammissione alla Coppa, si è già sentito da
qualche parte negare alla Juventus la qualifica di « testa di serie ». « Il maggiore titolo della Juve —
è stato detto in ambienti ufficiosi della Lega — sarà quello di essersi sostituita alla finalista dello
scorso anno!. Sul piano internazionale non è che sia fallita soltanto la Juve « collettiva » di
Heriberto Herrera che proprio qualche mese fa, a Zagabria, ha conosciuto il k.o. netto. E’ fallita, nel
passato, anche la Juventus « individualista » delle grandi stelle. La Juventus che si faceva eliminare
dai bulgari, che incassava manate di gol dagli austriaci. Un unico, grande alibi può contestare la
Juventus, riferendosi alla Coppa dei Campioni del suo passato tricolore: una scandalosa
eliminazione subita, più che dal Real Madrid, da un arbitro francese, gran « vassallo » del Real.

Non c’è chi non ricordi ancora oggi il sanguinoso scontro tra Pachin e Omar Sivori. Tolto questo
neo favorevole, la tradizione internazionale della Juve è sempre stata assai modesta.

Heriberto Herrera non vuole conservare la tradizione. Vuole avere i mezzi a disposizione per non
fallire. E’ per questo che la sua maggiore preoccupazione, dopo la conquista dello scudetto, è stata
quella di chiedere alla presidenza bianconera uno sforzo finanziarlo più che serio. Ha ragione
Heriberto quando dice: « Adesso abbiamo grandi responsabilità. E’ inutile far finta di non saperlo:
d’ora in poi noi avremo tutti gli occhi puntati addosso. La gente farà confronti, perchè il domino
dell’Inter è stato lungo. La Juve deve essere pronta a questo confronto: in campionato e in Coppa ».
Sconfitta a Lisbona, tolta dal « giro » a Mantova, l’Inter ha subìto un ridimensionamento
imprevedibile fino a qualche settimana fa. Imprevedibile almeno nelle proporzioni. Ma è proprio
questo improvviso e totale ridimensionamento che pone la Juve, in un certo senso, con le spalle al
muro. Il muro delle «responsabilità maggiori» alle quali ha accennato Heriberto. Quando Helenio
Herrera dice che la Juve avrà l’anno prossimo il contemporaneo vantaggio delle teste di serie in
Coppa e del Campionato a sedici squadre, afferma cosa esatte. Ma c’è il rovescio della situazione: il
confronto tra Inter e Juve sarà in futuro ancora più polemico, ancora più duro, ancora più incerto.
Heriberto ha gli occhi puntati su questo prevedibile sviluppo futuro e non vuole trovarsi
impreparato.

C’è fra l’altro un piccolo particolare che gli dà ragione: le dimissioni di Herrera dalla carica di
CU-azzurro. Heriberto sa meglio di chiunque altro che dietro quelle dimissioni c’è Angelo Moratti.
Che dietro Moratti c’è la precisa intenzione di riprendere ciò che la Juve ha conquistato e che l’Inter,
in otto giorni, ha drammaticamente perduto. E adesso tocca alla Juve!, vuol significare anche
questo. La storia dell’ ultima Coppa dell’ Inter, è una storia d’archivio che può servire ad entrambe.
Sia al futuro della Juve che al processo interno dell’Inter.

1° TORPEDO
Mancando le « teste di serie », l’Inter spera in un sorteggio distensivo, che serva più che altro a
entrare nel clima. Ma la speranza non si avvera. Il primo avversario è la Torpedo di Mosca. E’ in un
periodo di gran forma; ha caratteristiche atletiche di altissimo livello; possiede un asso: Valery
Voronin.

L’ottimismo di Helenio Herrera incassa il primo colpo. La Torpedo gli sconvolge i piani della
preparazione della squadra. Tanto che è proprio a questo primo avversario di Coppa che si ricollega
tanta parte del crollo dell’Inter nel finale di Campionato, quando la Juve, mai rassegnata, stanca ma
grintosa ed « heribertizzata » fino al midollo, riuscirà a strappare lo scudetto all’ultima giornata. La
Torpedo infatti costringe Herrera ad accelerare in maniera inconsueta la preparazione. « Contro la
Torpedo dobbiamo essere già al massimo della condizione: sennò rischiamo di farci eliminare
subito! ». Per evitare l’eliminazione, l’Inter di Herrera muta… calendario. Nei due anni precedenti
aveva, prima rimontato sette punti al Milan di Gipo Viani, e un anno dopo, era uscita ancora una
volta alla distanza. Sorteggiata la Torpedo in Coppa, Herrera parte al massimo dei giri. Il sospetto
della cottura alla distanza è accantonato da « necessità immediate ».

A San Siro, nella partita di andata infatti, l’Inter si accorge che la Torpedo è più forte di quanto
avessero sospettato Herrera e la maggioranza dei critici. Per sfondare il muro composto e
organizzato dei sovietici, non bastano Mazzola e Facchetti. Il jab decisivo lo dà proprio Voronin, il
migliore, che devia con un fianco un tiro ravvicinato di Sandro Mazzola. Sarà quel gol, solo quello
a far passare il turno. Ma l’Inter ancora non lo sa. E’ attesa allo Stadio Lenin di Mosca: fa freddo,
sono presenti 100.000 moscoviti ed Herrera è costretto a rinunciare alla panchina ai bordi del

campo. Nella patria del collettivismo non c’è posto per i Maghi in panchina. Jair colpisce subito una
traversa, sbaglia un altro gol: l’Inter non segna. Ma non segna nemmeno Streltzov, il cannoniere-
Vodka del campionato russo. E’ zero a zero. I colbacchi in astrakan di Moratti ed Herrera sorridono
al ritorno.

2° VASAS
Il Vasas è avversario di grandi capacità tecniche. Non assomiglia alla Torpedo, tutta atletismo e un
pizzico di classe. Gli ungheresi sono usciti a testa altissima dai Campionati del Mondo. Avessero
avuto un portiere appena appena dignitoso sarebbero arrivati quasi sicuramente in finale. Rimane
comunque il fatto che Lajos Baroti, C.U. ungherese, ha presentato alla World Cup la squadra più
spettacolare e applaudita assieme al Portogallo di Eusebio e Coluna. Ma che c’entra il Vasas con
l’Ungheria dei Mondiali? C’entra. L’allenatore infatti è Csordas, allievo di Baroti e otto giocatori su
undici del Vasas sono nazionali. In Italia (è novembre-dicembre) è sempre tempo di… discussioni
azzurre. Il fantasma di Edmondo Fabbri, i confronti tra Inter e Nazionale, la maledizione della
Corea: tutto fa polemica.

In questa situazione ambientale, mentre la Juve è preoccupata più che altro di inserire nel
movimiento di Heriberto l’ « indipendente » Gigi De Paoli, l’attesa per le due partite è forte. La
prima, a metà novembre, è sempre a San Siro: un pomeriggio tepido. Gli uomini più di prestigio del
Vasas sono Meszoly e Mathez indietro, Puskas e Farkas davanti. Farkas, stritolato da Burgnich, non
tocca palla. La tocca invece il biondo Puskas che pareggia, con un pallone sfuggito a Sarti, caricato
dai suoi, il gol di Soldo! Soldo aveva segnato di sinistro: il suo unico gol, nell’unica partita giocata
nell’Inter. Sull’uno a uno scoppia mezzo dramma, ma una punizione di Corso batte il portiere del
Vasas che di « foglie secche » assolutamente non se ne intende.

A Budapest, in dicembre, con un freddo cane, l’Inter cancella le incertezze del campionato con
una partita da manuale. Segnasse Jair tutti i gol che sbaglia, sarebbe un trionfo illimitato.
Comunque ci pensa Mazzola con due gol che incantano l’Europa. Eusebio, in poltrona alla Tv, a
Lisbona, pensa: « E’ più grande di me! ». A Budapest Mazzola dà l’ennesima prova di essere l’unica
vera arma di un’Inter esperta ma oramai in disarmo. La tesi che corre sulla bocca di tutti è questa: se
avesse Mazzola, la Juve sarebbe in testa alla classifica. Tesi esattissima.

3° REAL
Contro il Real, le due partite dell’Inter non sono due partite come le altre. II Real di Miguel Munoz
e detentore della Coppa. L’anno precedente fu proprio il Real a strapparla all’Inter con una vittoria
di Pirri a Madrid e un pareggio di Amancio a San Siro. Herrera pub sopportare tutto (anche di
perdere una Coppa e un campionato in otto giorni!), ma non potrebbe sopravvivere all’umiliazione
di perdere due volte consecutive in due anni con il Real. Herrera è ancora Spagna. E’ Suarez. E
Suarez è Spagna, Barcellona. Alle due partite contro il Real Helenio Herrera si prepara con cura
silenziosa, scrupolosa fino alla pignoleria. Ha cambiato sistema polemico. L’anno precedente la sua
battaglia dialettica con Munoz aveva scatenato colpi bassi a ripetizione. Quest’anno ha scelto il più
britannico dei fair play. « II Real è grande! »; « Può accadere tutto! »; « Sarà la più grande partita
dell’anno fra le due più grandi squadre europee. » Fra l’altro c’è un particolare che non va
dimenticato. Proprio in questo periodo Giuseppe Pasquale lo sceglie come C.U. della Nazionale.
L’orgoglio smisurato di Herrera aggancia immediatamente la nuova qualifica personale al carro
dell’Inter e vi aggiunge nuovi motivi di prestigio. Più per se stesso che per la squadra…

Ci sono dunque vecchi conti da regolare e motivi nuovi ambientali che rendono eccitante questo
incredibile… « quarto di finale »! Tra i motivi nuovi, va segnalato anche Cappellini. Accantonate
una dietro l’altra le soluzioni « brasiliane » (Vinicio centravanti oppure Jair ala), Herrera ha lanciato
come spalla di Mazzola Cappellini. Sarà appunto Cappellini il match-winner contro il Real sia a
San Siro che a Lisbona. II centravanti non convince in via « definitiva » ma attraversa un periodo
di una efficacia tale che si impone subito come goleador-rivelazione. Dice Munoz: « Conosciamo
l’Inter come se fosse oramai una squadra spagnola. L’unico che potrebbe sorprenderci è Cappellini:
ma da dove salta fuori questo? »

II timore-sospetto di Munoz non è inopportuno. A San Siro è uno stupendo colpo di testa
spiazzante di Cappellini che porta l’Inter alla vittoria. Ma è una vittoria « stretta ». Eppure a questo
punto, sono in due ad essere soddisfatti del risultato: Herrera e Munoz! Munoz commette l’errore
commesso da Herrera l’anno precedente: quando, uscito dal Chamartin sconfitto con il gol di Pirri,
era convinto di poter fare scempio del Real a San Siro. Lo stesso errore di sottovalutazione, di
presunzione e di supponenza lo commette Munoz che ritorna in Spagna soddisfatto. «A Madrid —
dice — pareggeremo il gol subito e poi vinceremo! ». A Madrid invece scoppia la fine del mondo.
Cappellini colpisce ancora, questa volta di piede, su una palla non trattenuta da portiere. E poi Luis
Suarez per la prima volta tranquillo e disteso, mette in gol al cinquanta per cento con Zoco la palla
del trionfo. L’Inter fa melina. Il Real muore. Un torero solitario invade il campo. Migliaia di
fazzoletti bianchi chiedono disperatamente l’orecchio dell’arbitro. E’ tutto quanto possono fare.
Sembra che l’Inter abbia già vinto la coppa…

4° CSKA
Una squadra di ufficiali e di soldati dell’Esercito Bulgaro è l’ultimo ostacolo dell’ Inter sulla strada
della Finalissima di Lisbona. Non c’è un personaggio in Europa che più o meno decisamente non
pensi ad una passeggiata dell’Inter. Ma l’Inter sta ormai faticosamente mimetizzando l’usura, la
stanchezza, il super-menage. La Juve di Heriberto, pur accusando periodiche battute a vuoto, è
sempre lì, che lotta per non perdere l’appiglio con lo scudetto. Questa continua inevitabile
preoccupazione interna, rende difficili oramai tutti gli impegni.

Herrera, prima di incontrare i bulgari, dichiara in una intervista a Supersport: « Ho più paura
adesso di prima! » II pubblico non ha fatto code eccezionali perchè a convinto che sia « facile ». Ma
facile non è. L’Inter, imbastita all’attacco, segna con Facchetti. Ma la partita non è finita. Su una
punizione respinta dalla barriera e ribattuta, Sarti viene preso in contropiede. L’Inter non riuscirà
più a battere il portiere bulgaro, ma nessun giocatore, pur non nascondendo preoccupazione, ne fa
una tragedia. Con il ricordo di Madrid in tasca, giocatori e allenatore sono segretamente convinti
che a Sofia il giochetto del contropiede riuscirà con matematica certezza. A Sofia infatti sembra
che la partita rispetti i programmi ottimistici: difesa a oltranza per venti minuti, rete di Facchetti su
calcio d’angolo. Inter ingolfata prima del gol; Inter finalmente organizzata dopo il gol. Ma il CSKA
è fatto di soldati. Non rinuncia. Con un tiro abbastanza fortunoso dal limite pareggia. E’ la bella.
Incredibile. L’orizzonte dell’Inter si fa scuro. Allodi promette due terzi dell’incasso ai Bulgari per
avere lo spareggio in Italia. Accordato. A Bologna, testa-capolavoro di Cappellini. E’ la finale.

5° LISBONA: VOMITO O STANCHEZZA?


Il puff di Herrera
I “tutti stanchi” di Guarneri

Il 70% di Moratti

• 10 partite nello Stadio d’Onore

• Le pastiglie di Mazzola
• Bicicli non è un santo
• Sabotaggio o dissenteria
• Jair non era assente

E’ finita più tardi, in Italia, la finale di Lisbona: a cibi guasti, vomito e dissenteria. Un caro amico
medico, Alberto Cambieri mi dice: « I cibi guasti portano dissenteria più the vomito. » Comunque,
quando Helenio Herrera, dal ritiro pre-Mantova di Sirmione, rilascia a tre giornalisti le sue sibilline
dichiarazioni a proposito di un retroscena gastro-sabotatorio, qualcuno, a scanso di equivoci,
chiama Angelo Quarenghi a San Pellegrino per saperne qualcosa di più. Quarenghi conferma un
eccessivo stato di disagio fisico di alcuni giocatori già al momento di trasferirsi con il pullman tra il
ritiro di Muxito, oltre il gigantesco ponte Salazar, e lo Estadio National. La bomba innescata da
Herrera fa però puff! E si sgonfia. Anche perchè Moratti, come più tardi in occasione delle
dimissioni da C.U., deve aver fatto pressioni decisive. Sullo stesso pullman, trenta minuti dopo la
sconfitta, parlai con Guarneri. Chiesi a Guarneri: « E’ stata la sconfitta con la Juve? La mancanza di
tranquillità per lo scudetto? Soprattutto la stanchezza come conseguenza? » Guarneri mi rispose:
« Stanchi? Eravamo tutti stanchi se e per quello, anche noi difensori, eppure noi ce la siamo cavata.
E’ vero che quelli della difesa sono sempre gli ultimi a morire: più o meno si arrangiano. Però noi la
partita l’abbiamo persa dieci volte perchè non abbiamo tenuto il centrocampo. Non siamo riusciti a
fare un’azione dico una, a tenere un po’ la palla in avanti. Cosa potevamo fare dietro? Prima o poi
era logico che si dovesse cascare. E in quelle condizioni credo che anche Suarez non avrebbe potuto
fare granchè. » Testualmente.
L’alternativa dunque sta tra il vomito e la stanchezza. O meglio tra chi ha vomitato di più « prima »
della partita e chi era più stanco « durante ». Una conclusione abbastanza completa la si può dare,
ma, per una storia d’archivio com’è questa, va fatta prima un po’ di… storia: quando, dove, cosa,
come.

Venticinque maggio, a Lisbona, finale dei Campioni. Lo « Stadio Nazionale » è a dieci
chilometri da Lisbona, immerso in una vegetazione gonfia, verdissima. E’ un complesso di impianti
sportivi. II campo sul quale si gioca e chiamato « stadium d’honneur ». Durante tutta la stagione si
sono giocate appena dieci partite… « d’honneur », di Coppa o internazionali. Il Benfica non
c’entra: gioca al La Luz. Lo Stadio Nazionale, quando è pieno, contiene 60.000 spettatori. Un’ora
prima che cominci la partita, Silva Rocha, medico della Nazionale Portoghese alla World Cup,
incaricato ad assistere gli italiani durante la trasferta a Lisbona, mi dice: « Non sarà esaurito ».
La proporzione tra interisti e « celtisti » è di dieci a uno a favore dei celtisti. Le innumerevoli
bandiere bianco-giallo-verdi del Celtic sono bilanciate da un immenso striscione nerazzurro
allungato lungo tutta la tribuna stampa da un super tifoso di Landriano. Lo strapotere dei celtisti è
però bilanciato dalle previsioni sulla direzione del tifo dei portoghesi. Quasi tutti gli osservatori
locali danno per scontata una propensione per 1’Inter. Sono servite a questo proposito alcune
dichiarazioni di Herrera, di più quelle di quasi tutti i giocatori del Benfica, primi fra tutti, Eusebio,
Simoes, Torres e quelle di Costa Pereira. Inaugurato nel 1944, lo « stadio d’honneur » è uno dei
tappeti più soffici e perfetti che ci siano in Europa. Dopo una prima ispezione preliminare, Herrera
aveva dichiarato: « Il fondo è troppo soffice, l’erba troppo alta: taglieranno le gambe ». Dopo

l’ultimissimo controllo, all’allenamento ultimo, quello del martedì presente Moratti, il parere di
Herrera è cambiato: « Hanno tagliato l’erba: è perfetto ». La stampa portoghese (soprattutto « A
Bola » di Lisbona) dà immenso spazio alla finalissima. Si sostiene fra l’altro che la scelta
dell’arbitro tedesco è giusta. Un titolo dice: « Un arbitro tedesco sarà più obiettivo di uno
portoghese ». E’ annunciata la presenza di Americo Thomaz, capo dello Stato e di Umberto di
Savoia, in esilio a Cascais, sulla « Costa do Sol », a pochi chilometri da Lisbona. A Umberto, nei
giorni precedenti, Angelo Moratti, con gesto signorile e « indipendente », ha offerto in dono una
placca d’oro dell’Inter. Tutti gli occhi del clan interista sono puntati sulle condizioni di Corso, il
vero vice-Suarez e su quelle di Sandro Mazzola. Le ultime notizie da Maxito sono queste: Corso ha
ricevuto la visita della famiglia al gran completo. Si e appartato per una lunga passeggiata con la
madre nel parco dell’Hotel. Il padre di Corso mi dice: « Mario non parla molto, ma l’ho trovato
tranquillo. Ha voluto star solo con sua madre ». Corso, alla vigilia, e i1 giocatore più osservato.
L’assenza di Suarez e la assoluta necessità di un uomo di gran classe che sappia frenare impeto
degli scozzesi ha reso centralissima la prestazione del mancino veronese. Ho parlato con Sandro
Mazzola: è ancora un po’ giù di voce, dopo l’infiammazione tonsillare. Mi dice: « Posso rendere al
settanta per cento! ». Angelo Moratti commenta: : « Se è il settanta per cento mi basta! ». Ma, poco
prima della partita, i tifosi del Celtic e gli stessi dirigenti scozzesi sono già matematicamente sicuri
di aver vinto la Coppa. All’Hotel Palacio di Cascais, ritiro di Stein e C., c’è stata una distribuzione
semi-ufficiale di coccarde prefabbricate con la riproduzione della Coppa-67. Sono ubriachi da due
giorni i tifosi del Celtic: gironzolano di notte carichi di whisky e di birra, cantano canzoni
patriottiche. Alle 17,25 (ora legale del Portogallo) l’Inter è in campo. Il dubbio tattico è sciolto:
gioca, purtroppo, Bicicli, con il numero dieci sulla maglia. E’ la finale della Coppa dei Campioni:
non più di un anno fa Bicicli partecipava, a pagamento, ai tornei notturni! Per il flash dei
cinquanta fotografi posano a centrocampo Picchi e McNeill, più la terna arbitrale tedesca. Vento
leggero. Calcio d’inizio all’Inter. Il primo passaggio è di Mario Corso a Facchetti. Quasi tutti i
fotografi sono piazzati dietro la porta di Sarti, che ha il sole negli occhi: è chiaro che attendono il
gol del Celtic! La sera prima, all’Estoril-Sol, dove alloggia Moratti, c’è stata una discussione sul
pronostico della partita. Il sottoscritto, dopo aver visto la faccia di Mazzola e aver captato i timori
di Corso, dice — Celtic e aggiunge: « L’Inter non vince in campionato da due mesi circa: perchè
dovrebbe battere il caricatissimo Celtic di… pomeriggio? ».Vengo bollato come Cassandra. Dopo
pochi minuti falciano Cappellini. Commenta Olten Aires, primo arbitro brasiliano in tournee
istruttiva in Europa: « In Brasile io do il penalty per un fallo come quello ». Mazzola spiazza
Simpson e calcia perfetto a fil di palo dalla parte opposta. L’Inter, a questo punto, ha davanti a sè
la partita preferita: gol di vantaggio, difesa e contropiede. C’è il gol, c’è la difesa, ma questa Inter
non ha nemmeno il fantasma del contropiede. Bedin, Bicicli, soprattutto Corso, naufragano.
Mazzola, sempre più solo, sempre più pallido, sempre più stanco (è imbottito di pastiglie, ma mezze
sono vitamine, mezze antibiotici…), sparisce. Non si possono chiedere i miracoli agli uomini
comuni: a Bedin, a Cappellini, a Bicicli o a Domenghini. I miracoli si chiedono ai « santi ». E i
« santi » dell’Inter sono Corso e Mazzola. Nulli i santi, il Celtic fa quello che vuole. Un critico urla:
« Cambia Magol! Sposta Bicicli a destra e metti Domenghini in mezzo a sgobbare! ». Gli risponde,
più tardi, Guarneri: « Nemmeno Suarez avrebbe potuto fare granchè ». E’ la verità. L’ultima di
Lisbona.

Vomito o stanchezza? Arsenico e merletti? No, non credo. Herrera (e Quarenghi) dicono il vero:
prima della partita alcuni giocatori accusarono disturbi gastrici « superiori al normale ». Ma quella
era anche una partita « superiore al normale ». Non perchè fosse una finale, ma perchè a quella

finale i giocatori, alcuni in particolare, sapevano di arrivare in condizioni quasi disperate. I disturbi
gastrici « normali », in tali circostanze, sono normali reazioni nervose. Se a Lisbona ci furono
disturbi anormali è perchè furono anormali anche le reazioni nervose. Fu una crisi di responsabilità,
una confessione psico-fisica di impotenza a determinare quel qualche cosa in più, di superiore. A
conferma di tale tesi stanno alcuni fatti:

primo: Si sostenne the Corso avesse chiesto di non giocare. Corso mi ha giurato il contrario:
« Avevo paura, per la prima volta in vita mia mi sentivo le gambe tremare nel vero senso della
parola. Poi quando ho visto Mazzola con quella faccia, sono andato ancora più in crisi. Nonostante
questo non ho mai chiesto di non giocare ».

secondo: Sarti fu strepitoso, Picchi e Guarneri eccellenti, Burgnich e Facchetti normali. I cibi

guasti esistevano solo per gli attaccanti? E, guarda caso, proprio per i due giocatori più attesi e più
decisivi, ma, per ragioni diverse, nelle peggiori condizioni fisiche già da un pezzo? Contro la
Fiorentina Corso aveva giocato da cani. E Mazzola, lo sapevano tutti che aveva tonsille, novanta di
pressione, debolezza e antibiotici. A parte Mazzola e Corso, gli altri fallimentari di Lisbona furono
Bicicli, Domenghini e, meno, il bistrattato Bedin. Anche qui coincidenza? Bicicli e Domenghini
spenti come candele, liquefatti in campionato. E Bedin, parte colpevolmente ma molta parte
incolpevolmente, stretto nella morsa Suarez-Corso con grande confusione di compiti.

Nessuna sorpresa dunque a Lisbona. Soltanto lo specchio, forse troppo accentuato del

« momento ». Stanchezza dunque, assenza di Suarez (e di Jair diciamo noi). Ma quest’ultima non la
concediamo a Herrera. Stanchezza, usura a Lisbona. Poca fatalità. La fatalità l’Inter l’ha pagata a
Mantova.

Da Stein a Heriberto

Questa è una foto che Helenio Herrera non dimenticherà facilmente. E’ stata scattata a Lisbona. Alla
sua destra, l’accompagnatore Chiesa addirittura non segue più l’azione. Quarenghi, il medico, tiene
disperatamente l’orologio tra le mani. Della Casa, il massaggiatore, sta rimettendo tutto dentro la
borsetta. Il Celtic ha già segnato con Chalmers il gol della vittoria. Rien ne va plus. Sostituite
Lisbona con Mantova. Sostituite Chiesa con l’accompagnatore Ceresa. E’ tutto uguale. Helenio che
nasconde tra le mani il capo abbassato. Incredulo, distrutto, deluso, tormentato. Come se si trovasse
su un banco degli imputati più che su una panchina, sia pure la più bersagliata d’Italia. Quando esce
dallo spogliatoio (dal quale ha escluso tutti, anche gli intimi, i fedelissimi, cosa mai accaduta prima)
dichiara poche cose. La più importante, detta a Lisbona naturalmente, è questa: « Il campionato che
dobbiamo vincere ci porterà alla prossima Coppa ». Herrera lo disse senza enfasi. Con naturale e
logica fermezza. Nessuno, nemmeno in quel momento, poteva prevedere che l’Inter non sarebbe
arrivata allo spareggio.

Heriberto Herrera come Jack Stein. Due vittorie diverse. Due uomini diversissimi. Due scuole.
Nulla in comune. Soltanto una cosa: una fotografia di Helenio Herrera, il più applaudito, il più
celebre, il più conteso Mago del mondo. Quella foto, faccia nascosta, che vi mostriamo. Perchè, da
Stein a Heriberto, non è accaduto nulla che potesse interrompere la frana nerazzurra? E’ questo
l’interrogativo che è rimasto sospeso come una X indecifrabile sopra la conclusione del campiona-
to. Dopo Mantova, Cadè disse: « Ho trovato l’Inter migliorata : ma il Mantova non è il Celtic! ». Da
un giovedì all’altro, in due partite altrettanto decisive, Helenio Herrera ha incontrato, veramente, le
due squadre più diverse, più contrastanti che potesse trovare in circolazione al mondo. Il Celtic e il

Mantova! La più recente, vigorosa, caricata e nazionalistica espressione di calcio atletico, rabbioso,
anglosassone, negatore della tecnica come arma essenziale e piuttosto spinto da una freschezza
entusiastica, mentale prima che fisica. Il Celtic di Stein. E il… Mantova! Non c’è nulla che possa
lontanamente assomigliare al Celtic, nel Mantova. C’è molta meno distanza, non so, tra alcuni
uomini, tra alcuni schemi della Juve e del Celtic che non tra uomini e schemi di Stein e di Cadè. Il
Mantova che gioca tutto rattrappito o tutto disteso, ma senza gioco verticale. Tutto ovattato, fatto di
ragnatele, di difensori che camminano. Una squadra da pareggio, con una personalità accentuata
proprio in queste caratteristiche sincopate. C’è un abisso tra Gemmel e Scesa. Non c’è un abisso tra
Leoncini e Gemmei, tra Gori e Gemmel. Come concezione. Da un giovedì all’altro, un giovedì di
maggio e uno di giugno, l’Inter ha perduto tutto. La diversità delle squadre, in tutto, ritmo, giocatori
e tattica; lo stesso risultato (1-2 e 0-1) dimostrano che più che le avversarie a condizionare l’Inter, è
stata la stessa logora Inter a condizionare le avversarie. In senso sfavorevole a Helenio Herrera
naturalmente. Per questo la frana nerazzurra non si è fermata. Da Stein a… Heriberto dunque, via
Cadè. La « nausea del pallone », della quale ha parlato in questi giorni il Mago, riferendosi alla
maggioranza dei suoi giocatori, ha toccato lo zenit proprio in quella settimana. Da un giovedì di
maggio a un giovedì di giugno.

Celtic 12.000 – Inter 1.200: quanti la Juve?

Il più grande esodo sportivo che le cronache ricordino in Europa fu quello interista del 27 maggio
1964: quel giorno, al Prater di Vienna, per la Finale di Coppa dei Campioni con il Real di Di
Stefano erano presenti venticinquemila tifosi arrivati dall’Italia. Tre anni dopo, a Lisbona, alla finale
con il Celtic, gli italiani presenti allo Estadio National erano 1.200 circa. L’enorme distanza
dall’Italia è giustificazione ovvia e scontata a tale massiccia riduzione. Ma va sottolineato che i
tifosi del Celtic, calati dalla Scozia erano 12.000: una proporzione di dieci a uno. Proporzione che si
è fatta visibilmente sentire sotto tutti gli aspetti (le stupende immagini riprese da Lamberto Londi di
Farabola sono una testimonianza lampante). Questione di distanza, ma questione anche di
« assuefazione ». La « prima » volta dell’Inter fu Vienna. La prima del Celtic fu Lisbona. Ora tocca
alla Juve! Sarà la sua prima, vera occasione, dopo i fallimenti del passato. Dove arriverà? E’ il
primo interrogativo. Quanti tifosi riuscirà a mobilitare? E’ un interrogativo statistico, ma non per
questo meno interessante.