1969 gennaio 7 Gipo Viani razza Piave

RAZZA PIAVE (Il Gazzettino, 7 gennaio 1969)

Due anni e mezzo fa, Gipo Viani era “clinicamente” morto. Per non mettere sotto un motociclista era
volato, capotando in un fosso, con la granturismo sport. La faccia schiacciata sul tetto della macchina,
aveva lasciato il profilo impresso nella lamiera. Ricordiamo cosa ci disse nel corridoio della clinica
milanese il professor Maspes, neurochirurgo di fama europea: “Conoscevo Viani come personaggio
giornalistico, ora lo conosco come paziente: nelle condizioni – limite in cui è venuto a trovarsi dopo
l’incidente, credo che pochi, pochissimi soggetti sarebbero sopravvissuti. Si è salvato perché siamo
intervenuti subito, ma soprattutto perché… lui non voleva morire, non si è mai lasciato andare, ha
resistito con una tremenda volontà di sopravvivenza”. Quando uscì dallo stato di coma, con la faccia
spezzata da decine di fratture, scrisse su un foglietto: “professore, sono razza Piave”. E gli cucirono il viso
senza anestesia.

Lo chiamavano Mastro Gipo, forse per il tono autoritario geloso verghiano con il quale considerava il
calcio del dopoguerra la sua “roba”. Lo chiamavano John Wayne per le spalle larghe, la stazza alta, lo
stecchino in bocca, la tesa del cappello sollevata “alla vaquero”, e gli occhi chiari, mobili. Lo chiamavano
la “volpe di Nervesa” perché nessuno come lui riusciva a dare dignità, intelligenza ad una panchina;
nessuno come lui, quando ancora il catenaccio non aveva livellato la tattica, riusciva con una mossa dai
bordi del campo a vincere una partita. Lo chiamavano il “ ras del Gallia” perché, durante i nove anni al
Milan, dominò il mercato del football facendosi un amico e nove nemici, dal momento che tirava sul
prezzo di un giocatore come su un vitello allevato nella sua fattoria di Nervesa.

“Non sono vecchio, non lo sarò mai perché non mi sono ancora bevuto il cervello e il nostro calcio ha
bisogno di idee”. Ce lo disse quindici giorni fa, dopo averci spiegato che per lui l’Udinese era come una
Cap Kennedy fatta in casa, dalla quale sarebbe rientrato ancora e presto in orbita. Le biografie parlano
oggi dei “risultati” di Gipo Viani: di una tattica (il “libero”) inventata prima di tutti quando allenava la
Salernitana, della Roma riportata in serie A, degli scudetti vinti, della prima Coppa dei Campioni portata
in Italia. Ma fare del Gipo una somma di risultati, equivale a rimpicciolirlo.

Il Gipo aveva cervello, idee. Nessuno come lui aveva capito l’importanza dei vivai per il calcio. Ma non di
un vivaio qualsiasi; no, di un vivaio “decentrato” perché non crescesse una generazione di calciatori
provinciali alienati dall’anonimato – di – massa delle grandi città. Nessuno come lui amava il calcio ben
giocato. Nessuno come lui combatteva il dogma secondo il quale una società di calcio deve essere per
forza passiva. Quando andò al Milan, il deficit era di 450 milioni. Scommise con Andrea Rizzoli che
avrebbe vinto lo scudetto e sanato il bilancio. Mantenne la parola e Rizzoli gli mise in una busta, sul
tavolo del suo ufficio, un assegno di 20 milioni per dirgli grazie. Forse per questo, ci fu un giorno in cui
Angelo Moratti gli offerse il contratto dell’Inter. “È stato il grande errore della mia vita: se avessi
accettato – ci confessò un giorno Viani – forse avrei evitato un sacco di guai. Avevo deciso di accettare,
ma quando entrando nella sala del consiglio del Milan sentii un lungo applauso e la stretta di mano di
Rizzoli, non riuscii più a dire quello che dovevo dire”. Moratti e Rizzoli possono testimoniare l’episodio.

Viani super – personaggio; solo Helenio Herrera intervistato quanto lui. Ma ciò che è sempre sfuggito al
flash, alla patina giornalistica, è il lato umano di Viani. Un veneto, quando diventa personaggio, quando i

riflettori sono puntati, reagisce come reagiva Viani.: chiudendosi, nascondendo la guancia al naturale e
mostrando soltanto l’altra, la guancia con la cipria. Viani, soprattutto in questi ultimi anni, ha patito
tante e gravi amarezze, ma non le ha mai sbandierate, anzi le ha nascoste, mascherate. Gli chiedevi
“come va?”. E lui, con l’infarto nel cuore e il morale a pezzi ti rispondeva “ da Dio”.

Aveva investito i soldi nella fattoria agricola di Nervesa. Non la mollò mai, nonostante il cronico passivo.
Ma la fattoria non è mai stato il suo porto. Viani non si è mai fermato. Non ha mai voluto mollare, non si
è mai sentito in discesa. “Adesso l’affetto, l’entusiasmo di Udine sono tanto di ossigeno per le miei
coronarie!”.

Sul cruscotto della macchina teneva un corno rosso, portafortuna. Il corno rosso non lo ha tradito. È
morto a letto, in un albergo, dopo una sconfitta della sua squadra. La morte lo ha preso mentre dormiva.
Sì, perché, se se ne fosse accorto, avrebbe vinto ancora lui, Viani.

Addio vecchio indimenticabile Gipo, razza Piave.

Giorgio Lago