1969 settembre 28 Il ricorso del Torino
1969 settembre 28 (Il Gazzettino)
Il ricorso del Torino
La richiesta del Perugia
La decisione di Herrera
L’imputato è il petardo (mortaretto bengala & affini). Il processo cominciò con una circolare della
Lega che annunciava la recrudescenza delle pene, in denaro, per le Società « oggettivamente
responsabili » del comportamento dei propri dipendenti e supporters. L’Uefa rinforzò il botto
diffidando il Milan per il primo match di Coppacampioni: « Se continuerà la pioggia quasi
tradizionale di fuochi d’artificio, San Siro rischia la squalifica ». Il presidente del Milan usò i tifosi
« legalitari » in servizio di gendarmeria durante la partita: il risultato fu eccellente, perché al
controllo sfuggì un solo, triste, petardo.
La repressione della Lega ha offerto questa settimana la misura: 1 milione e mezzo di multa al
Napoli. Quasi un simbolo, Napoli che del mortaretto è la città-madre. Come può difendersi una
Società di calcio dallo stillicidio continuo di multe sempre più pesanti? Individuando, nome e
cognome, i responsabili. Solo denunciando il colpevole, la Società riuscirà a scaricare l’ineluttabile
handicap della « responsabilità oggettiva ». L’ha capito Di Brino, estroso general manager del
Verona, quando, giovedì scorso, ha dichiarato: « Stiamo studiando la possibilità di premiare
sportivamente chi ci farà individuare con certezza il responsabile di lanci tassativamente proibiti ».
L’esigua presenza di forze dell’ordine negli stadi induce le Società a difendersi privatamente dai
« fuorilegge del petardo ».
E’ giusto. Se quest’hobby conserva infatti valore coreografico, appare troppo pericoloso a chi
lancia e a chi riceve perché Lega e Società non ne siano preoccupate. Nella sentenza disciplinare,
che confermava venerdì scorso la squalifica del campo del Foggia, si legge: « venivano lanciati vari
petardi ed un bengala; le faville del bengala cadevano sulla testa dell’arbitro ed alcune di esse
penetravano fra il suo collo e il colletto della camicia, peraltro senza conseguenze. Vano rimase
l’invito, rivolto a mezzo di altoparlante, di desistere da ulteriori lanci ».
Bisogna però evitare che la « guerra al petardo » si trasformi in paravento delle buone intenzioni;
in un’occasione per calcare la mano, bilanciando altre debolezze della Lega. Sarebbe insomma
ridicolo offrire la sensazione che la malattia dei nostri stadi sia il botto! La verità è che il tifo si
esprime attraverso mezzi sempre più intimidatori; si cerca di dare al fattore-campo un peso
eccessivo. Un peso che finirà con il falsare gli equilibri tecnico-agonistici del campionato. Il fattore-
campo come vantaggio ambientale è « dato sportivo »; come intimidazione è « reato sportivo ».
L’intimidazione (del pubblico) e la provocazione (di giocatori e allenatori): colpire in queste due
direzioni è obbligo fondamentale della giustizia sportiva, oggi.
Gli Organi di Giustizia sportiva sembrano non afferrare ancora in pieno la meccanica di molte
« domeniche violente » del calcio italiano. Ci si ferma a chi compie il reato, sottovalutando se non
proprio trascurando il « mandante ». Troppe volte invece la responsabilità, prima che sul pubblico,
coinvolge i protagonisti, giocatori e allenatori. Ogni decisione dell’arbitro fa scattare sulla panchina
uno dei due allenatori (tranne rare eccezioni): il lavoro del « giudice in campo » è sottolineato da
scatti, da insulti, da braccia alzate, da testa tra le mani, e avanti con il melodramma. Tutto ciò viene
assorbito, per simbiosi istintiva da parte del pubblico, che afferra ingiustizie magari inesistenti, si
carica fuori misura. Peggio, molto peggio, con i giocatori, molti dei quali brillano per adamantina
ignoranza dei regolamenti: stanno minuti e minuti per formare barriera alla distanza giusta;
protestano per qualsiasi fallo fischiato; discutono (e non potrebbero, eccetto che per il capitano della
squadra); si girano verso le tribune a « denunciare » presunte storture; aggrediscono in massa
l’arbitro, come è accaduto a Catanzaro.
Dal momento che in questi casi i… nomi e cognomi sono a disposizione facile, vogliamo
cominciare a colpire sul serio tutti i provocatori che stanno in campo? Vogliamo star più leggeri con
le punizioni per « falli di gioco » e calcare la mano per « falli non in azione di gioco »?
Allontaniamo qualche personaggio dalla panchina, per mesi se necessario; facciamo capire ai
giocatori che la provocazione sarà colpita non con multe ridicole (20-30 mila lire) ma con dei
tariffari sull’ordine del mezzo milione. Ma tutto sarà sempre e ancora inutile se le Società non
« educheranno » i propri dipendenti ad un codice morale e disciplinare. La pena, da sola, non
risolve il problema. Occorre andare alla radice, cioè alla « scuola » impartita dai dirigenti.
Proprio questa settimana sono accaduti tre episodi didattici, da meditare:
1) il Torino è ricorso contro la squalifica di Poletti sostenendo che si era trattato di un « calcetto
stizzoso » (!). La Disciplinare ha respinto il ricorso, confermando le tre giornate di squalifica per
« calcione premeditato »;
2) Helenio Herrera non ha convocato il centravanti Enzo per la trasferta di Verona dopo che il
giocatore aveva reagito platealmente al pubblico che lo beccava durante una amichevole;
3) il Perugia ha chiesto alla Lega di ratificare due provvedimenti disciplinari inflitti dalla stessa
Società ai giocatori Bacchetta e Polentes per aver reagito con « espressioni poco edificanti » alla
decisione dei dirigenti di prolungare il ritiro precampionato.
Il ricorso del Torino è un cattivo esempio; le decisioni prese dal Perugia e da Herrera sono un
buon esempio. La Lega non può moralizzare la carta d’identità del calcio italiano se le Società
insistono nella pratica del « furbismo »; il giorno in cui « collaboreranno » per un obbiettivo di
pulizia collettiva, allora anche la « guerra del petardo » acquisterà la dimensione esatta. Il 6 maggio
del 1955 a Filadelfia, il pugile negro Harold Johnson fu drogato (e finì svenuto) da… un’arancia
offertagli all’ingresso dell’arena poco prima di un match. Anche il campionato ha la sua arancia
drogata: per uno scudetto sportivo, va subito rifiutata.