1971 dicembre 12 L’uomo del giorno
1971 dicembre 12 – L’uomo del giorno. Le vedove ( inconsolabili ) di Rivera
All’alba del ’72 i suoi idolatri gli chiedono ciò che non ha mai dato né a Rocco né al Ct.
Ha 28 anni, Gianni Rivera, esattamente come Rosato: piemontese pure lui, nato lo stesso anno, lo
stesso mese, lo stesso giorno. Rosato è di porfido e dura; Rivera è di mogano e si logora. Dicono
che Rivera sia marcito dal tempo, perchè cominciò a 16 anni la carriera di “ golden boy ”. Dicono
una bugia perchè Suarez, spagnolo, giocò in pubertà come lui e non smette ancor oggi, ad un passo
dall’età critica; perchè Pelè, a 16 anni, era già “ perla nera”; perchè Hamrin, lo svedese, ha smesso
18 anni dopo aver infilato la maglia della Nazionale; perchè Carantini scatta da stopper a 36 anni.
I 28 anni sono l’ultimo alibi inventato dalle vedove inconsolabili di Gianni Rivera. Le vedove che,
convinte di aver amato “ Il Migliore ”, non tollerano l’irriverenza critica di chi toglie le lettere
maiuscole.
Le vedove che, avendo scolpito l’idolo, sono incapaci di accettare le sue pedate da Uomo. La storia
di Rivera è la storia del divismo: dei titoli a nove colonne e dei pomodori in faccia, delle teen-agers
urlanti e delle telefonate minatorie. Non è casuale che proprio Rivera, il 19 luglio del ’66, dopo lo
stress coreano, abbia detto: “ Venga presto settembre, così avremo tutto dimenticato ”. Con il tono
di un Pasternak del football, famelico d’oblio e di professioni borghesi.
Mentre il gelo ci soffia addosso il 1972, il Milan, i cursori del Milan, i fans del Milan, gli esteti
personali di Rivera Gianni, chiedono il processo e inchiodano il palco per la ghigliottina. Senza
capire che mai come oggi la testa dell’ “ abatino ” non merita di finire, zac!, nel cesto. Solo
Edmondo Fabbri ha sfiorato la verità commentando, in un’inchiesta del Corriere: “ Da Rivera si
finisce sempre con il pretendere la luna ”.
L’ultimo Milan che ho visto fu il derby. E l’ultimo che ho televisto Dundee-Milan. Nel derby, il
furbo scatto di Rivera schioccò come un corto circuito, in gol. E’ Bedin, suo incontrista, disse: “ La
cosa più intelligente, gol a parte, Rivera l’ha realizzata portandomi in zona distante da Corso. Sua o
di Rocco che fosse, mi è parsa una idea tattica decisiva ”. A Dundee, almeno nei 21 pollici di
teleschermo, Rivera fu senza dubbio il meno-mediocre dell’attacco. Lo si è visto persino interdire,
correre in zone che non ha mai amato, dettare almeno tre corridoi-gol. Lo si è visto giocare senza
supponenza eppure non ricevere mai un triangolo decente da giocatori come Benetti, tanto poveri di
classe quanto ricchi di nerbo. Uscito dagli stridori vecchissimi di una caviglia, Rivera produce
discreto standard in una squadra che storpia persino i terzini: Sabadini non doveva essere il Cooper
di Rocco e rotola invece gelatinoso?
Ma, chiedono a Rivera ciò che Rivera non hai potuto dare, né a Rocco né alla Nazionale. La verità
sta qui. Lo vogliono uomo-squadra, come un Di Stefano, un Charlton, un Pelé, un Overath, un
Suarez: e uomo-squadra non fu né sarà, dai tempi di Viani alla pensione di Rocco. Lo vogliono
giocatore di muscolo fino a chiedere, per le “ partite da battaglia ”, un Zazzaro qualunque nella
maglia numero 10: e uomo d’energia non è. Lo vogliono trascinatore, in campionato e Coppa: e
Rivera resta personaggio che gioca da impressionista, a tocchi di colore, senza immagini dai
contorni precisi, di travet figurativo dei campi di football.
Sull’ultimo numero di “ Famiglia Cristiana ”, Rivera ha confessato la sua insicurezza e i suoi dubbi
di uomo: la paura della famiglia, il gusto idealista del perfezionismo. Che farà alla fine della
carriera?, gli è stato chiesto. E lui: “ Potrei anche fondare un ospedale in Guinea ”. Si possono
chiedere certezze agonistiche, tutte d’un pezzo, ad un personaggio tanto sfumato? No. Un altro tipo
di risposta sarebbe possibile soltanto con una trasfusione ormonale prestatagli da Riva. Un Riva che
confessa: “ Solo il gol mi fa sentire realizzato in pieno ”.
La cronaca del calcio nostrano testimonia tutto ciò che Rivera non ha potuto dare: la Mini-
Nazionale del ’66, che fu chiamata la “ nazionale di Rivera ”; la Coppa Europa ’68 che fu vinta a
Roma senza Rivera; la Coppa Rimet ’70 che soltanto sei futili minuti ridussero ad una “ vittoria
morale di Rivera”. E, l’anno scorso, quando cercai di scoprire, sul terreno extratecnico, il non-
rendimento di Rivera nel Milan, mi furono minacciate querele.
Il linciaggio vero non lo effettua chi definisce Rivera grande rifinitore e non uomo-squadra; non lo
effettua chi, negandogli polmoni e posizione da Dino Sani, suggerisce di sfruttarne al 100% lo stile,
da ala destra vagante o da centravanti suggeritore. Il linciaggio autentico lo inventano, partita dietro
partita, i suoi grandi elettori, quelli che gli negano ogni limite gonfiandone ogni qualità. Lo hanno
trasformato in un intoccabile: infallibile in campo, più infallibile in tribuna. E così il Milan è una
sua colonia, e Rocco un suo vassallo, e Mazzola non possiede i suoi lanci, e Riva non ha la sua
classe, e Corso non tiene la sua velocità, e insomma il dito critico s’infila sempre nell’occhio altrui
mai viceversa.
Gianni Rivera, anni 28, arricchisce da sempre il Calcio, perchè “ ha nel sangue – come ha osservato
Altafini – la cosa più bella, lo stile ”. Nonostante i limiti naturali, durerà ancora, nei metri verdi che
lo avvicinano all’ incubatrice del gol, dove i suoi piedi sono compassi d’intelligenza. Lo crediamo
proprio perchè Gianni Rivera non è il Noschese della pedata, capace di imitare chicchessia: e resta
invece giocatore capace di realizzare soltanto sé stesso, ombroso e alternativo. Resta, anche, un
personaggio. Per lui, userei la battuta riservata da Giancarlo Pajetta ad Amintore Fanfani: “ Una
cosa è certa: con lui non ci si annoia ”.