1972 settembre 4 Puma al guinzaglio
1972 settembre 4 – Puma al guinzaglio
“ Marcello, what! Are you still here? ”, grida dalla strada una ragazza canadese, di quelle che sono
lunghe betulle imbottite di proteine.
Dalla terrazza, il muso che s’appoggia ai gerani, Fiasconaro allarga le braccia: “ Si, sono ancora qui,
ma ho un piede maledetto e non correrò ”. Gli sarebbe toccato proprio oggi, per i primi 400 su
rekortan, e lui non ci sarà.
Resterà appeso al televisore, come un puma al guinzaglio, disarcionato e solo, gli occhi fissi sul
piede sinistro, con rancore.
Sto con Fiasconaro nella sua camera, al numero otto di Connolly Strasse. Sono le nove del mattino,
il sole allunga una fessura sul letto di “ March ”, così lo chiamano a Città del Capo, dov’è nato
ventitrè anni fa da padre italiano, Gregorio, e da madre sudafricana d’origine belga, Mabel Brabant.
Nella stanza, disordine da goliarda: scatole di crackers, mucchi di scarpette, borse buttate, giornali
sportivi per terra, l’ultimo numero di “ Koncret ” per il quale concretezza significa spogliare seni di
donna.
Sul comodino un pacco di lettere, quasi tutte dall’Italia. Ne leggo una: “ Lascia perdere i medici –
gli raccomanda – prendi invece chiara d’uova fresche, sbatti bene e fascia per qualche giorno il
piede. Poi, fatti portare del buon vino, e bevi ”. Un po’ miope, le mandibole scarne, Fiasconaro
abbozza un sorriso, mentre la lunghissima gamba sinistra è stesa sul cuscino, una lieve fasciatura al
metatarso e, appoggiata alla caviglia, la borsa di ghiaccio, unico vero flirt consentitogli da un mese
a questa parte.
– Hai il piede troppo concavo sulla pianta: da quando l’hai saputo?
“ Da sempre ”.
– Ma è un’artrosi da vecchia frattura che ti procura il dolore?
“ Si. Ruppi la gamba cinque anni fa, giocando a rugby a Città del Capo: caddi dentro una buca in un
tackle gigantesco. Ma non mi era mai capitato un dolore così ”.
– Il dottor Oliva dice che guarirai. Ne sei certo?
“ Si, guarirò con il riposo ”.
– Quale sarà il tuo futuro in atletica?
“ Di sicuro, tra quattro anni a Montreal. Ma forse, fino al 1980 ”.
Fiasconaro ha studiato poco. In Sudafrica, faceva il rappresentante di tessuti, più tardi, di articoli
sportivi. Dopo Monaco, tornerà subito a casa e cambierà, per dirigere una steak-house, roba di
bistecche insomma. All’anagrafe del Coni è qualificato come “ agente di commercio ”, eppure, mi
viene assai difficile immaginarlo così, catalogato e pratico. Porta perenni blu-jeans e stivaletti in
camoscio scuro, il 43, con tacco nonostante il suo metro e 83, chili 79 di peso-forma. Ha baffetti
anarchici, i capelli da complesso dei “ Pooh ”; ama la musica beat, i film wester e polizieschi; adora
gli spaghetti e un drink in voga dalle sue parti, misto di Coca-Cola e latte, battezzato “ mucca
marrone ”.
Raccontano che non incrocia due parole della nostra lingua: mica vero, almeno adesso; parla bene
e capisce tutto senza sforzo. Gli secca molto di leggere cose inesatte e smentisce di aver detto, per
esempio, che le ragazze italiane sono belle, ma hanno il difetto di “ parlare subito di matrimonio ”.
La sua ragazza si chiama Sally, vive a Johannesburg: solida biondona, qualcosa più dell’amica ma
qualcosa in meno della fidanzata, e infatti alle sue dita non compaiono anelli di March.
Soltanto da 22 mesi Fiasconaro ha scoperto l’atletica. Prima praticava rugby, sport negato ai fifoni e
ai frilli, dove la “ cosa più bella, – confida – sta nel correre 70 metri e mettere la palla li, per terra ”.
Questa matrice di potenza e ormoni non gli esce però dal volto. Anzi, è lui il personaggio più velato
che abbia incontrato in questi giorni. Forse timido, sicuramente inquieto, una storia vecchia che gli
parcheggia nel sangue.
Ora direttore d’orchestra, il padre di Fiasconaro era durante la seconda guerra mondiale motorista su
un Caproni 133 che fu colpito in combattimento e atterrò senza esplodere nel Sudan. Marchiato Wp
( War prisoner, prigioniero di guerra), Gregorio Fiasconaro venne internato in Sudafrica, conobbe
Mabel Brabant e la sposò. Prese la cittadinanza sudafricana, ma non volle recidere un cordone di
nostalgia: quando nel ’49 nacque March, il padre riuscì a prenotargli anche la cittadinanza italiana,
il “ doppio passaporto ”, quello che gli consente ora di vestire la maglia azzurra.
Alloggia qui, in tale sdoppiamento, la febbre psicologica di Fiasconaro, nato e vissuto sudafricano,
anglofono e ora italianizzato, brado a Città del Capo e qui catturato dalla nostrana fame d’atleti e
quindi subito monumentalizzato, sollevato nei titoli a nove colonne e costretto dal pubblico ad
essere il “ primo ” il migliore di tutti, la scoperta.
Un riportare a casa l’oriundo, quasi con morbosa frenesia, noi che siamo invece popolo fornitore
d’emigranti, e quindi di sofferenza. “ La gente – confessa Fiasconaro – mi sente fin troppo italiano e
non mi lascia in pace ”.
Da due anni, March non trascorre un inverno! D’estate corre infatti in Italia e, quando arriva il
nostro gelo, lui prende il jet per il Sudafrica dove la stagione è inversa, e lui corre ancora, corre
troppo perchè le pause della natura sono in noi e non le puoi scansare. Ha “ ballato quattro estati ”
consecutive, Fiasconaro, senza trovare un sofà per sentirsi rilassato, né con i muscoli né con lo
spirito. In Italia, non ha amici. Solo “ colleghi ” di lavoro, in atletica, durante i cinque mesi di ritiro
a Formia: “ forse troppi ”, sussurra con la stessa espressione dei calciatori quando battono il tasto
della loro pedatoria “ gabbia dorata ”.
Non ci fosse quel piede sinistro nel ghiaccio, Monaco sarebbe forse riuscita a passare lo stesso,
come un rullo, sul crepuscolo di March. Sarebbe forse, bastata l’umanità di Nebiolo o Sally e i
genitori fatti salire dal Sudafrica. Ma, ora, Fiasconaro non è che impasto di atrosi e malinconia:
dispetto e inazione.
Non ha corso i 400 oggi e non potrà correre nemmeno la staffetta visto che il solo training è fatto di
torsioni di braccia e addome, a gambe in naftalina: perciò, pur programmandosi già fino al 1980,
March sbanda verso il passato, quello del rugby a Città del Capo, “ il rugby mi lasciava anche
vivere, qui l’atletica è invece un grande sacrificio ”.
Venuto dal paese dell’apartheid, Fiasconaro non “ distingue ” i bianchi dai negri. Dice che anche in
Sudafrica lo sport sta lentamente sgretolando le staccionate razziali e indica proprio in un negro,
l’ugandese Jhon Aki-Bua, il più spettacolare atleta di Monaco ’72, dove l’olimpiade scorre senza che
anche lui, March di Città del Capo, possa baciare il tartan e lo stress dei 400, la corsa che finisce
“in salita ”.
E’ persino sfottente che “ grande ammalato ” sia proprio Fiasconaro, passato nelle robuste strette del
rugby e definito dai tecnici atleta di povero stile ma di enorme potenza. Il bufalo del Capo,
considerato il più pericoloso animale africano, cede il passo all’elefante, per timore: “ Marcello
Fiasconaro, simpatico “ bufalo ” dal doppio passaporto, è bastato un piede per sentirsi battuto e,
peggio, sedentario.