1973 ottobre 8 Soltanto vampate di gioco nerazzurro
1973 ottobre 8 – Soltanto vampate di gioco nerazzurro
“Ma che scherzo è questo?”. Aveva biascicato Fraizzoli qualche
mese fa, quando il computer sputò fuori la scheda: Inter-Genoa il
primo giorno di campionato. Per San Siro, infatti, il Genoa è
squadra speciale da quando una maglia è toccata a Corso e una a
Rosato, vecchie reliquie di Inter e Milan. Non ci fossero stati loro,
questa era partita da abbonati: così, gli spettatori contati sono
72.000. Sì ci sono i Bittolo, i Bordon, i Bini, ma quante persone
riescono a sollevare dalle poltrone? Forse cento, parenti e amici
compresi. San Siro aveva i ventimila in più non soltanto per quei
campioni sgualciti, quasi incapaci di ottenere il placet dei medici e
certamente incapaci di celare fianchi invacchiti.
Anche io sono venuto a San Siro soprattutto per questo. E poiché
sulla barricata stava l’Inter, ho contato i 90 minuti di Corso, come
filtrati in clessidra, dove il tempo pare scorrere più lento e più
adatto al passo di felpa, il passo di Mariolino.
E’ entrato in campo per ultimo, centrato dai flash. Ha guardato la
gradinata con un saluto tutto veneto, pudico. Il bianco ingrassa e la
maglia bianca del Genoa gli tondeggia l’addome. M’è parso
diverso, una Wanda Osiris che avesse lasciato lo strascico per la
minigonna. Nemmeno un nuovo contratto gli ha però scalfito i
connotati di sempre, due calzettoni sulle caviglie, l’undici sulla
schiena, la radura in testa.
Per quanto giocatore, mezza Milano discute ancora dopo che lady
Fraizzoli, d’estate, aveva avvertito: “Se vendete Corso, andrò a
San Siro soltanto per il Milan!”. Per questo giocatore, un
opportunista come Helenio Herrera ha dovuto inventare di notte
che “nell’Inter tipo-Ajax non serve un regista”. Corso ha 32 anni
passati ma per lui tutti i salici del tifo si sono messi a piangere,
come un giorno per Altafini o Angelillo o Suarez, esuli più che
trasferiti.
Trattando dei premi-partita, la commissione interna dell’Inter aveva
chiesto un milione contro Juve, Milan e Lazio, mezzo contro tutte
le altre. Negli ultimi giorni, c’è stata una variazione: anche il Genoa
di Corso valeva un milione, per batterlo. Povera Inter: dopo averlo
ceduto, ne soffre patetica fissazione. Persino HH che al posto del
cuore porta un freezer; per marcare Corso usa infatti il campione
del podismo, Fedele, friulano dai lineamenti di sioux, e per toglierli
i rifornimenti del mediano Maselli, il mago ex-offensivista, padre
del “taca la bala”, cultore del ritmo, dà il numero 11 a Bini, ragazzo
tramonto, ma non
mezzo terzino mezzo stopper, messo in campo, pensa tu, per
Masini, umile cameriere di Corso.
“Nei primi minuti – racconta Corso sotto la doccia – ho provato una
sensazione indefinibile”. La sensazione di un secondo esordio. Il
primo, con l’Inter, fu un giorno di novembre del 1958. Da allora,
500 partite con l’Inter, 413 in campionato, 75 gol, 4 scudetti, due
Coppacampioni, due coppe mondiali, e l’aggettivo mancino che
bastava a identificarlo, o Mariolino o Mandrake o Paganini o piede
sinistro di Dio come lo chiamò il Ct. della nazionale israeliana.
Quindici anni così per un professionista del football, possono
essere quindici anni qualunque?
Corso nel Genoa è il Cinesinho del Lanerossi, Suarez nella
Sampdoria. La classe al
tanto bassa
all’orizzonte da non poter fare leggere ancora schemi e geometria
a chi può correre senza inventare. La sua posizione tattica è quella
del commendatore al quale devi offrire collaborazione o, pur
saltandolo, rendere almeno omaggio, con un gesto, una occhiata,
un segno che spieghi perché.
Diceva Romain Rolland: “La menzogna eroica è una vigliaccheria:
c’è un solo eroismo a questo mondo: vedere il mondo come è e
amarlo”. Racconterei una vigliaccata solenne dicendo che Corso è
asciutto, arzillo, ancora capace di scattare. Non scatta, forse non
corre, probabilmente nemmeno si muove: è soltanto un genio che
cammina sul prato. Ma a lui basta e basta al Genoa. Un amico,
accanto a me in tribuna, ha osservato, con inconsapevole
dolcezza: “Li imbecca e li nutre come dei bambini”.
Certo non sa entrare in tackle: non l’ha mai saputo. Ma il Genoa,
per non tornare in B, ha bisogno anche di ciò. E Corso s’è battuto,
di sghembo su Bedin, ex valletto personale; poi su Facchetti e
Mazzola: tre calci di punizione e, di lontano, Rosato che lo
applaudiva “bene così”, lui che ha scelto il tackle per vocazione.
Corso ha sollevato disimpegni e tocchi e corti geroglifici. Un
pallonetto lungo “davanti” a Simoni, ricordando Moratti secondo il
quale “Corso serve meglio dello stesso Suarez, perché i lanci dello
spagnolo hanno tutti la stessa velocità del destinatario”.
“Il mio sogno? 1-0 a San Siro, con un gol mio, su punizione, una
foglietta secca”: era stata questa una delle tante interviste del
giorno prima. Ma Corso, come Rivera, non è mai un sognatore. In
campo, ha capito che i suoi numeri non sarebbero serviti al
Genoa. Si è messo in mezzo, uno specialista ridotto al ruolo di
comparsa perché il senso tattico può essere virtù decisiva. L’1-0
era un sogno. Non averlo cercato, è valso lo 0-0 che, per il Genoa
e Corso e Rosato, conta come aver vinto. Alla fine Garbarini ha
tentato di sollevare Corso: ha tentato, senza riuscirci, perché 77
chili di regista dopo novanta minuti di sudore, sono troppi anche
per Garbarini. La gente applaudiva, malinconica. L’Inter metteva
tra le mani di Corso una miniatura di San Siro, con dedica al
“fuoriclasse inimitabile”. Sembra un epitaffio. E in un certo senso lo
è. Se lo sport è vita, la pensione dei campioni è un può come
morire.