1974 giugno 24 Mondiali addio

1974 giugno 24 (Il Gazzettino)

Buttati fuori dalla Polonia per 2-1 nell’incontro decisivo a Stoccarda
Mondiali, addio

Gli azzurri, anche sfortunati, hanno nuovamente denunciato carenza di gioco, di ritmo, d’un
minimo di collettivo – Ora si impone un radicale cambiamento di mentalità, oltre che di
uomini

Dal nostro inviato
STOCCARDA, 23 giugno
Non c’erano le urla xenofobe dei cileni come accadde nel ’62, non c’era il cielo pieno di smog di
Middlesbrough come nel ’66. A Stoccarda c’era il sole caldo di mezza estate: un sole più italiano
che polacco. A Stoccarda c’erano 55 mila italiani, record mondiale per una partita giocata all’estero.
Stoccarda era Roma non una città straniera.

Ma niente di tutto ciò, nessuna benevola atmosfera, è servita. Il Mondiale dell’Italia si chiude al
primo round. Non siamo più i vice-campeones do mundo, non lo siamo più nemmeno formalmente.
Ora, l’Italia ritorna Italietta. Senza infamia, piuttosto con un afoso languore addosso.

Haiti ci ha dato il botto, l’Argentina ci ha ammoniti, la Polonia ci ha ridimensionati. Ora, della
nostra leggenda paesana, della nostra retorica di quattro anni, non resta più nulla. Nel mondo delle
pedate, siamo ritornati un’espressione geografica.

Un giorno a Francoforte, meritammo la testa di serie del Mondiale, un omaggio al risultato di
Città del Messico e alla tradizione. Ora, siamo tutti qui con le dita intinte nel sentimentalismo, ai
confini del de profundis. Non è un dramma nazionale, al massimo un dramma da ortaggi. Ma è una
sconfitta brutta, che ci rimpicciolisce proprio; in un fenomeno che, entro le frontiere dell’autarchia,
mette in movimento interessi e stress ai confini dell’ipertrofia.

Soltanto un paio di mesi fa, i ragazzini scommettevano sui minuti di imbattibilità di Zoff e
rifacevano la conta dei 35 gol azzurri di Riva. Sembra passato un secolo mentre lo stadio di
Stoccarda è vuoto e non rimane sul cemento nemmeno un pezzetto di tricolore.

I Santi del calcio nostrano hanno conservato soltanto l’effige. Zoff è stato battuto due volte, Riva
stava a guardare vicino a Re Cecconi. Rivera ha guardato dalla tribuna. Chinaglia è finito in
panchina. Boninsegna non ha ribaltato il risultato. E Mazzola, l’« unico asso » come l’ha chiamato
Pedro Escartin, ex grande arbitro e ancora presidente della Federcalcio spagnola, non ha potuto
lievitare da solo un impasto troppo povero di classe.

Valcareggi non è più Papà Uccio. Da stasera è soltanto un uomo battuto. Un uomo fino a ieri
fortunato e finalmente messo a sedere. La logica del tifo è sempre spietata e quasi sempre ingiusta.
Non ricorda nulla perché nulla vuol ricordare.

Non è colpa di Valcareggi se il Cagliari gli ha consegnato un Riva pronto soltanto ai calci di
punizione. Non è colpa del Ct se il Milan gli ha portato in ritiro un Rivera con il ritmo di una partita
di bridge.

Semmai, Valcareggi paga errori che nascono di lontano ma errori che non sono soltanto suoi e
che in certa misura coinvolgono invece gran parte dell’ambiente. I difensori incensati soltanto
perché sanno distruggere. Mediani dal tocco di escavatori. Centrocampisti senza il fondo degli atleti
dell’Est. Attaccanti di pagella europea ma non a tal punto da farne dei garanti del risultato.

Pensate a Riva, che non ha il destro. Pensate a Chinaglia che ignora il gioco di testa. Pensate a
Boninsegna che non possiede allungo. Pensate a Pulici che sta tuttora a lezione di tecnica. I veri assi
italiani sono gli assi importati. Non a caso, i grandi cicli dei Club sono cessati con i Sivori, i Suarez,
i Dino Sani. E persino la provincia, mettete il Lanerossi Vicenza, si condensa da un’eternità non nel
vivaio ma nei Vinicio, nei Cinesinho o nei Sormani di turno.

L’Italia battuta in Germania è tanto facile da semplificare che mette paura. Che cosa ti sembra?,
chiesi giorni fa a un espertissimo collega di Monaco. « L’Italia gioca senza gioco ». Sintesi
kantiana.

Il nostro gioco è stoppare gli altri. Svincolare da furbi, come un Fornaretto di Venezia. E colpire
sul contropiede invece che sull’azione. Il nostro calcio non è mai stato manovra d’esercito ma gesto
di commando. Per riuscire, debbono coagularsi alcune cose, i tackles con la agilità e questa con le
rare palle-gol. Nel senso classico del verbo giocare, ho visto giocare tutti, dagli scozzesi, agli
australiani, fuorché l’Italia. I suoi schemi sono sempre dei lampi.

Gli austriaci sono cenerentole e ci hanno aggrediti a Vienna. Gli haitiani sono neofiti e ci hanno
battuti per un’ora. Gli argentini sono sudamericani e li abbiamo pareggiati con un autogol da parole
incrociate. I polacchi sono nordici e ci hanno frustrati, non perché siano dei fenomeni, ma perché
sono i migliori realizzatori visti a questo Mondiale.

Fino a stamattina pensavo a un uno a uno. E’ stato due a uno per la Polonia. Quando si spegne,

l’Italia non ha nemmeno la consolazione di non aver appigli e alibi.

Invece qualcuno ne ha. Un palo di Anastasi, due stop fortunosi dei polacchi a portiere battuto.
Una scorrettezza dei polacchi che ha buttato fuori il migliore dei battitori d’area, Tarcisio Burgnich.
Finché c’era lui, l’Italia aveva fatto zero a zero. Con Wilson, con il libero delle nuove generazioni, è
andata in sette minuti dallo zero a zero al due a zero. Anche questo è forse un segno dei tempi.

Non ho mai amato usare il sostantivo « fortuna » per spiegare calcio. Da anni mi son posto la
regola di non assorbirne la facile tentazione e di cercare invece la critica sollevata, come uno
sguardo dal ponte, piuttosto che un’ottica da mischia stretta. Ma a Stoccarda l’Italia è stata anche
sfortunata. Carrara e Allodi non bleffano se usano questo aggettivo. Né Mazzola mente quando
racconta di otto palle-gol. Solo che, per essere onesti fino in fondo, non dobbiamo dimenticare le
molte volte in cui la fortuna spirò come un vento alle nostre spalle, per aiutarci. Nemmeno nel
football si può pretendere di avere il monopolio di quel labile vento e di camparci sempre sopra.

Mentre scrivo, nelle tribune è rimasto soltanto uno spettatore. Uno solo. E’ Serafino, panzone
lombardo, un ragazzo dal ventre di Budda e dai capelli brillantinati. Porta una maglia azzurra e
tiene sulle gambe una bandiera. Gli occhi sono coperti da un fazzoletto bianco. Serafino di solito
canta negli stadi. Ora piange; i fotografi tedeschi gli scattano decine di flash. Due poliziotti gli
accarezzano pateticamente le spalle.

Fuori dello stadio, centinaia di italiani stringono il pullman degli azzurri. Urlano « Assassini,

vigliacchi ». La polizia carica e i cavalli pestano piedi con zoccoli.

L’Italia è questa, anche questa, eternamente questa. Piange con Serafino e pesta in compagnia. Il
calcio non è un hobby da gente snob. Ma significa molte cose soprattutto quando si autoesporta tra
gli emigrati. La Federcalcio dovrebbe distribuire a ciascuno una bandierina e un pomodoro fradicio
perchè soltanto possedendo entrambi il tifoso completa la sua filosofia.

Non ho mai creduto alle amichevoli. Soltanto alle partite vere. Ma come pretendere di sottrarsi
completamente al fascino dei nomi? Questa Italia, che sta facendo in fretta le valigie, è, uomo più
uomo meno, l’Italia che ha battuto il Brasile e l’Inghilterra, che ha pareggiato con la Germania a
Roma, che ha umiliato Wembley dopo 40 anni.

Nel ’66 nessuno era preparato alla Corea. Nel ’70, nessuno era preparato al secondo posto. Nel
’74 pochi erano preparati ad accettare l’eliminazione al primo turno. Il nostro elettrocardiogramma
segna picchi sconclusionati. Saltiamo dalla presunzione allo scetticismo, dal gelo critico all’isteria.
Non c’è armonia, non c’è uno sviluppo. La nazionale fotografa in luce piena il nostro costume, la
nostra vita.

Non è esatto che, contro la Polonia, l’Italia abbia fatto schifo. Il primo e l’ultimo quarto d’ora le
sono appartenuti, prima per una verve perfino insolita, poi per un orgoglio sintetizzato nel sinistro
gol di Capello. Solo che la Polonia ha più di una volta dato l’identikit della limitatezza in troppi
giocatori, da Morini a Benetti, da Wilson a Chinaglia.

Da quando esiste il calcio parlato e, soprattutto, da quando esiste la nazionale parlata, vince chi
sta in tribuna. Ma, siamo onesti, possiamo stasera dire che con Riva o Rivera o Boninsegna dal
primo minuto il Mondiale sarebbe stato diverso, sicuramente diverso? Sono tra i pochissimi
giornalisti che in questi ultimi giorni hanno sostenuto Gigi Riva, nel senso di dare al samurai
l’ultima occasione, almeno 45′, di riprendere lo scettro di goleador, un sinistro che lo ha abbinato
nella leggenda, ma soltanto in quella, a Meazza e Piola.

Nonostante questo, mi sentirei in pacchiano bluff scrivendo che con Riva avremmo vinto o
comunque non perso. La controprova non esiste ma con il Riva visto assieme all’argentino Wolff,
niente sarebbe cambiato stasera. Piuttosto, Chinaglia ha ribadito d’essere forse il quarto dei
centravanti di Valcareggi. Il Ct aveva la ossessione delle torri della difesa polacca, Gorgon e
Zmuda, il primo una specie di doppio-Ferrante, il secondo buono per il basket. Per tenerle
impiegate, Valcareggi ha preferito Chinaglia a Boninsegna, non valutando come meritava il fatto
che, nel gioco alto, Chinaglia è più debole soltanto di Pedro Manfredini, il piedone argentino degli
anni ’60. Che Valcareggi se ne sia poi reso conto, lo dimostra la sostituzione di Chinaglia con
Boninsegna fin dal primo minuto del secondo tempo.

Priva di Burgnich, abituato da tempo a giocare su spazi abbastanza generosi, la difesa dell’Italia
ha lanciato s.o.s. Mazzola ed Anastasi sono stati costretti a fare i terzini, i mediani, gli stopper, per
ripartire poi a condurre azione avendo contemporaneamente il compito di andarla a concludere!

Sarò sempre stato un fissato di Sabadini ma è questo il tipo di terzini che noi dovremmo allenare,
perché aiutino gli uomini del gol a respirare meglio, ad essere meno spremuti al momento di
concludere. Il terzino migliore in campo non ha infatti un nome nostrano ma una grafia zeppa di
consonanti, Szymanowsky, il quattro, per voi che avete televisto la partita. Un terzino che,
aggiustata la marcatura, conquista l’out e batte via maestosi cross per i suoi attaccanti. In Germania
la difesa dell’Italia aveva almeno due punti-qualità in meno rispetto a quella di Città del Messico, la
difesa di Burgnich, Bertini, Cera, Rosato, Facchetti.

La Polonia è l’unica squadra del Mondiale che ha vinto finora tutte tre le partite. Le ha vinte
legittimamente, Italia compresa. Perché, se l’Italia ha avuto i quarti d’ora, la Polonia ha avuto le
mezzore. E qui si aggiunge una impressione che sta probabilmente alla radice di tutto: lo spasmo,
fisico, la scarsa resistenza fisica della nostra squadra. Non a caso, tecnici e medici avevano sbattuto
in tribuna Riva e Rivera per scarsa consistenza fisica. Non a caso, il ritmo del polacchi è stato letale
anche se, all’Italia come alla Polonia, sarebbe bastato un pareggio per passare a braccetto nel
secondo turno.

Il contropiede nostrano presuppone brillantezza, atletica, i riflessi in sintonia con le poche idee.
Se manca tale presupposto, il miracolo del contropiede non s’avvera. Forse per questo il Mago del
catenaccio europeo fu Helenio Herrera, riconosciuto come il miglior forgiatore di sprinters.

Szarmach, biondo centravanti dal naso di aquila, e Deyna, bruno regista, hanno tolto l’Italia dal
Mondiale ’74. Hanno tolto la squadra che fa incasso. Hanno tolto la squadra coccolata dagli
organizzatori.

C’è più rabbia che delusione in quanto scrivo. Rabbia perché, dopo una settimana di pomodorate
e faide, ritorneremo sicuramente ai mezzi miliardi per dei brocchi, alle decine di milioni di ingaggio
per mezzi campioni. Ritorneremo a sentire che il calcio italiano non ha bisogno di assi altrui perchè
la nazionale è grande e il vivaio meraviglioso. Ritorneremo al qualunquismo, specialità che ci fa
sempre simpatici e spesso sconfitti.

Da stasera comincia il vero Mondiale: purtroppo, quello degli altri.