1975 dicembre 16 Un poeta per salvare lo sport
Il Gazzettino, Martedì 16 dicembre 1975
Un poeta per salvare lo sport
Qualche giorno fa l’United Press ha intervistato a New York la « freccia nera » Jesse Owens.
Nel ’36 a Berlino mandò in bile Hitler battendo, lui negro, gli atleti-dei della razza ariana, come il
saltatore Lang. Nello stesso anno Count Basie incideva al pianoforte « Lady be good ». In uno scatto
di Owens o sulla tastiera di Basie correva la stessa armonia, l’anima di tutta una generazione di negri
americani.
Un’anima non ancora essiccata. Intervistato a 61 anni, Jesse Owens ha ricordato: « non
avevamo soldi, mio padre era un comune manovale. Lo sport, e in particolare le Olimpiadi, non solo
mi dettero modo di viaggiare ma mi permisero anche di imparare e di crescere come individuo ».
Lo sport come « crescita dell’individuo», sembra la frase di un marziano o di un ittita dopo
gli scampoli di trivialità ai quali ci ha abituato lo sport moderno. Ho ancora nei timpani il « Superga!
Superga! » gridato domenica scorsa al Torino, e, sempre a San Siro, il megafono elettrico usato per
vituperare la madre dell’arbitro.
Crescita dell’individuo, espressione mai tanto tagliata su misura per l’episodio di Milan-
Torino quando scopri che l’isterico di turno ha 15 anni, è nato a Londra e vive a Milano, è dunque
figlio delle metropoli ma dalle due città non ha saputo captare né il fair play inglese né l’ospitalità
lombarda. Soltanto il sordido di entrambe.
Ha 15 anni e lo sport non gli ha insegnato nulla. Da noi, come ha scritto « Stadium » la rivista
del Csi « predominano forme di sport spettacolare, commerciale e divistico che relegano le masse al
ruolo di consumatrici passive e alienate » . Alienate a tal punto, aggiungiamo noi, da fruire di sport
sempre « contro » qualcuno o qualcosa piuttosto che « per » una bandiera.
Come togliere quei megafoni dell’incultura? Certo, anche con le querele. Ma il problema, più
che di svuotare quelle tetre ugole, rimane un altro: di riempire l’anima, il cervello di quel ragazzo di
15 anni e di tanti come lui. Ci vorrebbe un altro Maiakovski che, per la sua Rivoluzione d’Ottobre,
cantava nei suoi versi persino i trattori, i montoni, il sapone, le stoffe. Ci vorrebbe un poeta che
riuscisse, per cambiare lo sport, ad esorcizzarne i simboli, l’atleta, lo stadio, il pallone.
Va di moda diagnosticare che « la colpa è di tutti noi », fare un polverone di ogni gesto,
proporre sociologia d’archivio, scovare nella famiglia il primo nido del male. Accreditare così la
tabula rasa serve soltanto a chi desidera risolvere un bel nulla, quando proprio i più attuali sondaggi
tra i giovani offrono risposte persino sorprendenti. Su richiesta di « Panorama », l’istituto Doxa ha
per esempio analizzato un campione nazionale di 500 ragazzi tra i 15 e 19 anni: ebbene l’80 per 100
degli intervistati « confida di andare d’accordo con i genitori e di non avere contro di loro grossi
motivi di scontro ».
massificato della tesi Pasoliniana.
delle cose.
L’altro giorno a San Siro, Rivera si è detto preoccupato, più che dalla sconfitta, dallo scarso
pubblico. Personalmente, mi preoccuperei assai più profondamente per il « tipo » di pubblico che, in
numero sta volta crescente s’avvia a quel rito di mera aggregazione cui spesso si riduce lo sport.
Guardiamoli in faccia, uno ad uno, certi volti di « sportivi ». Dove mai potremo arrivare con
loro, non isolandoli? Al massimo alla più vicina ricevitoria del Totocalcio. L’unica fede rimasta è il
13.
Forse esiste ancora uno spazio per smentire l’ultimo prototipo di giovane, violento, cinico e
Ma per tentare l’impresa servono opere e poeti, i messaggi della fantasia accanto alla politica