1976 luglio 13 Baran colore del Sile
Il Gazzettino – 13 luglio 1976
Remo e pagaia, strumenti umili che possono dare delle medaglie alla squadra italiana
Baran, colore del Sile
L’olimpionico di Messico ha cambiato il terzo compagno
Nostro inviato
Montreal, 12 luglio
Proiettano un film sul jumbo per Montreal; un classico western di Richard Brooks, « Stringi
i denti e vai » il suo titolo in italiano. Prima di sballare l’occhio, uno dei personaggi dice la sua
ultima: « solo vincere conta, chi perde è nessuno ». Come dire che il barone parigino Pierre de
Coubertin non aveva proprio capito un accidente assicurando che « l’essenziale nella vita non è
conquistare ma ben lottare » e che dunque l’importante delle Olimpiadi è la partecipazione non la
vittoria.
A guardarsi il film con aria pigra c’era anche Primo Baran, di Sant’Antonino di Treviso,
operario delle Ferrovie. A 33 anni, dopo aver vinto la medaglia d’oro nel ’68 in Messico, Baran può
consentirsi di essere più d’accordo con De Coubertin che con il cow boy di Brooks: « abbiamo 60
probabilità su 100 di andare in finale. Se ci riuscirò, quella finale sarà la mia ultima gara ». Guardo
il programma: 25 luglio, finale di canottaggio, due con timoniere. Un pezzo di vita di un atleta può
anche finire così, nel tabellone elettronico di un ordine d’arrivo. Non conterà vincerlo, basterà
esserci.
La prima volte che Baran assaggiò un remo fu 14 anni fa e il suo primo maestro fu Carlo
Biasin. Con Baran fece coppia prima Sambo, poi Rossetto, oggi Annibale Venier il cui padre è
friulano di Rivignano e la madre vicentina di Monticello Conte Otto. Chissà quanti aneddoti, quanta
amicizia, quante baruffe possono nascere attorno a un due con, dove il « con » sta per un ragazzo
che deve rimanersene fermo immobile, a cuccia nella barca, per farla andare il più dritta possibile
ed essere lui stesso, in carne e ossa, timone più ancora che timoniere.
Ma in Baran, più che un equipaggio, io vedo rappresentato un fiume, il Sile, il fiume di
Treviso, d’un oliva ancora chiaro almeno nel tratto più pulito, dalla « Canottieri » a Sant’Angelo
fino a Canizzano. Un fiume che per Baran deve essere come un secondo ossigeno, i suoi quattro
passi, una cosa tanto scontata da fargli dire, con appena abbozzato sorriso, « sono stufo di vederlo ».
Lo deve aver guardato tanto in questi anni, curva dietro curva, che un po’ di quel colore oliva gli si
è trasferito addosso, a mischiargli l’iride.
Gabriella, Margherita, Paola, Loreta erano i nomi di alcune barche del « trio » Baran. Questa
portata a Montreal non ha nome, è in legno americano e pesa 40 chili, 8 in più dei modelli in fibra
vetrata che il canottiere di Treviso definisce « più aggiornati ». Tutto infatti può risultare
determinante in quel contatto tra barca e acqua dove nemmeno l’abilità dell’uomo si fa più
avvertire.
Ogni specchio d’acqua ha valori particolari e non sempre può riflettere le condizioni ideali
di quel 19 ottobre del ’68 a Xochimilco. Dipende dalle correnti; basta una brezza a innestare giri
imprevisti. Dipende dalla temperatura; l’acqua fredda ha molecole più rigide cosicchè la banca
scivola meno. Il canottaggio è mille piccoli segreti e una fatica che tifa perdere 2-3 chili di peso
ogni percorso, due chilometri sui quali sono fortissimi sovietici e tedeschi dell’Est anche se, negli
ultimi tre confronti, il due con di Baran ha sempre ridotto l’handicap, da 8” a 4” a 2”.
Per Baran la gara è ormai istinto. «La rivedo mentalmente dopo» aggiunge. Più che mai il
canottaggio è questione di «cassetta», come la definisce lui, cioè quello che hai dentro, di cuore, di
resistenza, di respirazione. Normalmente il suo cuore ha 52 pulsazioni ma dopo pochi colpi di remo,
in stress agonistico, sale a 180-190. Questo anche se i test medici hanno dimostrato che Baran è uno
degli atleti che respirano meglio sotto sforzo, molto regolarmente, tanto da andare di rado in rottura.
Non c’è parte del corpo che i movimenti del canottaggio non chiamino allo appello. Sul
carrello scorrevole, la spinta delle gambe si proietta sulla schiena. Poi le braccia, irrobustite da un
lungo lavoro ai pesi in palestra. Braccia resistenti che in allenamento sollevano sgabelli come viole
mammole e che mulinano a 30-40 colpi al minuto un remo che Baran preferisce più grosso del
normale «per sfruttare meglio la potenza del colpo». Da gennaio ad oggi l’equipaggio di Baran ha
percorso una media di 40 chilometri al giorno. Abituati alle pazzesche cifre dell’atletica moderna,
quasi quasi scorriamo via quando invece bisognerebbe fermarsi un attimo e ripetere a voce alta,
quaranta chilometri al giorno, quaranta, da gennaio a luglio, remando e spingendo su un carrello.
Con Venier, delle Fiamme Gialle di Sabaudia, l’equipaggio è tornato più a Sambo che a
Rossetto, più all’agilità che alla forza. Con Franco Venturini si ripropone la lieve leggenda dei
timonieri, ragazzi che con i loro cinquanta chili di peso evitano anche la scocciatura di vedersi
sistemata in barca dalla giuria una zavorra, magari un sasso, da esibire ad ogni controllo.
Con Primo Baran l’odore del Sile è arrivato anche in Canada. Non so se i trevigiani ci hanno
mai pensato ma, fossi in loro, un ponte o un’insenatura o un salice o un pezzo di riva del Sile io lo
dedicherei a questo «due con» di Treviso che, attraverso Baran, dura da dieci anni in campo
internazionale.
di Brooks e ancora una volta avrà torto il barone De Coubertin.
Ma la dedica non dovrà dipendere dalla finale del 25 Luglio. Sennò avrà ragione il cow-boy