1976 luglio 15 All’Olimpiade come alla guerra

Il Gazzettino – Giovedì 15 luglio 1976

Un implacabile filtro armato protegge il villaggio degli atleti a Montreal
All’Olimpiade come alla guerra
Nostro inviato

Montreal, 14 luglio

Gli atleti arrivano da oltre cento nazioni vestiti come ufficiali, sciamano dentro le quattro
piramidi tronche del villaggio olimpico, aprono le valige e tornano a vivere come preferiscono.
Tute, zoccoli, maglioni, jeans, foulards, cappelli di fronte ai quali ti assale sempre la voglia di
chiedere dove li vendano.

Settant’anni fa a St. Louis, gli americani approfittarono delle Olimpiadi per organizzare « le
giornate antropologiche », due giorni di gare riservate a pelle rossa, pigmei, igorot, aino, un
campionario di razze ai margini. De Coubertin s’indignò molto per quella buffonata che nulla aveva
da spartire con l’aristocrazia dei suoi « Giochi ». Tuttavia, un po’ di antropologia sopravvive anche
nei villaggi delle moderne olimpiadi, tanto che a volte hai l’impressione dello zoo umano.

Mongoli ad armadio, le braccia che penzolano dando ragione a Darwin. Donne che
camminano sfregando iperboli di cosce. Indios alteri, negri dell’Alto Volta come sciabole di
carbone, malesi delicati quanto le nostre ginnaste che, forse per sottrarsi a virago e superuomini,
dormono tutte otto in una stanza sola.

Montreal ha copiato Monaco e gli atleti, pur accerchiati da reti metalliche e mitra, coltivano
l’illusione della « città aperta », del folklore, di un agglomerato tutto loro, di una vita sradicata ma
tutta da spedire a domicilio attraverso le 23 mila cassette messe loro a disposizione dalla Philips,
che registra parole d’amore e ambizioni, malinconie e desideri.

Ad ogni angolo o spiazzo del villaggio c’è uno spettacolo: gli atleti devono essere occupati,
disimpegnarsi il più possibile, non pensare ad altro che ai propri muscoli o al proprio talento. Dagli
altoparlanti esce Mozart o l’ultimo sound di California. Le bandiere garriscono l’una accanto
all’altra su pennoni d’alluminio e sono le uniche cose a garrire veramente. Tutto il resto è politica.
Gli atleti fanno gli agonistici anche se 24 atleti di Formosa, atleti come loro, sono da giorni bloccati
a Boston perché il Canadà riconosce soltanto la Cina. Gli atleti sono costretti a fare gli agnostici e il
movimento olimpico viene gestito sulla loro pelle: la discriminazione non ha infatti colore, può
colpire sempre e chiunque.

Nelle prime pagine dei giornali canadesi non ci sono la Korbut o Wulguter, i volti degli assi
cedono il posto a una faccia di distinto birrario, gli occhi mai così segnati di Lord Killanin, il
presidente del Cio che successe al « reazionario » Brundage con la patente di « progressista ». Un
deputato canadese, Claude Wagner, ha usato la parola italiana « Imbroglio » per definire il
patteggiamento sulla questione di Formosa e Gerald Ford, con enfasi probabilmente elettorale, ha
parlato di « fatto tragico ».

Ma se tragico può essere definito questo cocktail tra politica e sport, allora le olimpiadi
tragiche lo sono sempre state. Chi meglio di tutti capì che potevano essere strumentalizzate fu Hitler
nel ’36 quando furono persino tolte dagli esercizi pubblici le scritte « gli ebrei sono indesiderati »
perché i giochi dovevano essere un festival del nazismo ma anche un lindo biglietto da visita offerto
all’Europa.

La fiaccola può arrivare anche con i cingoli di un bulldozer, attraverso la speculazione
edilizia conosciuta a Roma nel ’60 e che qui a Montreal ha già portato parecchia gente in galera.
Quando è il momento delle progettazioni, la parola di obbligo rimane sempre austerity: alla

chiusura della contabilità, i miliardi volano a stormi come in Canada dove si prevedono quasi
trecento miliardi di passivo nonostante una previsione di tre milioni di spettatori paganti, nonostante
la lotteria, nonostante la vendita di monete e bolli, nonostante le licenze e il marketing collegato a
ditte private, nonostante i diritti televisivi venduti a un pubblico di un miliardo di spettatori.

Non è che ogni quattro anni si faccia l’olimpiade: ogni quattro anni l’olimpiade viene
«salvata». E, soprattutto, deve essere salvata perché né Israele né la Rhodesia né Formosa o
chiunque altro possono pagare di tasca propria la sospensione di un kolossal capace, come a
Montreal, di succhiare fino al fondo dell’inflazione il bilancio di una metropoli industriale.

Tra quattro anni toccherà a Mosca, dove stanno già lavorando nugoli di architetti, tra i quali
i progettisti del palasport di Milano. Più che mai sarà un’Olimpiade di Stato, un’occasione per la
«confrontation» dell’Est con l’occidente. È ipocrita bandire la politica dallo sport quando lo sport
non ha il potere di gestire l’universalità.

L’Olimpiade è uno specchietto retrovisore, un pertugio attraverso il quale riusciamo a
intravvedere come il mondo esprime lo sport e anche in questo specchietto esiste sempre il pericolo
di « angolo morto », di un angolo che non riesci a frugare. Di li ti può zompare addosso non
soltanto la politica ma persino un commando di « Settembre nero ».

Quell’alba di Monaco sta durando ancora e ossessiona Montreal. Qui dell’Olimpiade quasi
non t’accorgi per le strade, ai tassisti devi spiegare per filo e per segno dove sta il villaggio che
ignorano quanto altri impianti o il centro-stampa. Ma l’Olimpiade la riconosci dalla paura, dai
controlli, dal setaccio dei militari. « Siamo ai giochi o alla guerra? ». Si è chiesto oggi l’ex-arbitro
internazionale Diego Di Leo perquisito come non accade nemmeno negli aeroporti israeliani.

Per entrare al villaggio, devi superare il filtro di una decina di militari armati. Non un filtro
da chiudere un occhio, all’italiana: il controllo è pedante, burocratico, lento quanto serve. Con il
corpo passi attraverso una barriera magnetica che chiamano « sonar ». Poi un soldato ti affronta con
il «detector», specie di manganello chiaro che va a pescarti anche una moneta da cinque lire
nell’ultimo taschino dei calzoni. L’atmosfera degli ingressi è tutta resa inquieta dai sibili emessi dal
ricercatore ad ogni contatto.

Non ci sono eccezioni, nemmeno se entri al « Reine Elisabeth hotel » dove si sta svolgendo
il summit del Cio. Quanto agli atleti, la loro è la libertà di chi sta in una riserva. In Messico,
scendevano da Insurgientes fino alla elegantissima « Zona rosa » mischiandosi alla gente di strada.
A Monaco si postavano come s’usa per studenti di un college. A Montreal s’avverte costante l’aria
di « scorta ». Gli elicotteri non mollano mai e nemmeno le autoblindo o le Dodge della polizia.
Attorno alle olimpiadi la violenza non cambia, muta soltanto l’istinto di difesa.

Da due giorni Montreal alterna vento e una fine pioggia autunnale, l’altra notte dalla mia
stanza all’Università, ho visto i fulmini più poderosi cui mi sia mai capitato di assistere. Non c’è
allegria né festa ma, come sempre accade, arriveranno presto loro, gli atleti obbligati ora a
dimenticare tutto per ricordare soltanto la fatica di anni di preparazione. Sono gli unici a meritare
che l’Olimpiade venga « salvata ».