1978 giugno 6 Tra nostalgie e tattiche militari

1978 giugno 6 – Tra nostalgie e tattiche militari
Il pianeta Brazil

MAR DEL PLATA – “O juizo final”, il giudizio finale, scrissero a Rio de Janeiro il
giorno della partenza del Brasile per l’Argentina. E quando parte il Brasile, qualunque
sia la sua formazione, parte sempre per vincere. Gli accadde nel ’58, ’62, ’70, un tris a
nessun altro riuscito. Tutti i sondaggi europei l’hanno nei mesi scorsi dato per favorito
anche al Mundial ’78 ma le quotazioni sono calate dopo il faticoso 1-1 con quelle
stanghe di Svedesi. Che succede?
L’aggettivo più gentile riservato all’allenatore Claudio Coutinho è loco, pazzo, e si dà
per scontato che non capisca nada, nulla. Pazzo perché ha lasciato a casa Luis Pereira
(libero), Paulo Cesar (mezzala), Ziza (ala) Francisco Marinho (terzino), ventunenne
rivelazione nel ’74 a Monaco. Pazzo soprattutto perché gioca senza ali.
Visto contro la Svezia, l’attacco del Brasile è tutto centrale e s’infogna perché Gil, che
chiamano Buffalo Gil, non è un’ala e non sa fare l’ala pura nemmeno il terzino
Toninho, negro tanto negro e maestoso che profuma di foresta. Senza ali. E’ una
“tactica militar, non futbalistica” s’indigna Joao Alves Saldanha, che allenò mezze
squadre del Brasile, tra le quali il Botafogo del ’57-’60 con Didi, Zagalo, Amarildo,
Nilton Santos, Quarentinha, la cui traduzione è “piccolo quaranta”, nel florilegio di
stupendi nomignoli tipico al Brazil, nel calcio e fuori.
Pensate a Garrincha, la più grande ala mai apparsa al mondo, più importante di Pelé
nel vincere i mondiali del ’58 e del ’62. Garrincha significa “passero”, uccellino che
vola basso, radente, come i suoi dribbling, per opporsi ai quali erano necessari
minimo due difensori. Con lui a destra, diventarono tutti grandi centravanti, da Dino
Da Costa a Vavà, da Vinicio ad Altafini. Ora Garrincha insegna finte ai chicos, e i
ragazzini di Rio sanno di andare a lezione di leggenda.
Ziza non è Garrincha, ma un’ala d’urto, a destra e sinistra, figlio di Pinga, gran
giocatore del Vasco de Gama degli anni ’50. Nessuno sa spiegare perché non l’abbiano
portato in Argentina, dove Coutinho è voluto arrivare con una squadra impostata
“all’europea”. E questa viene considerata un’altra follia del dt, “come se voi italiani –
ridacchia scandalizzato Saldanha – voleste far palleggiare Benetti come un carioca!”.
Che vinca o perda, il Brasile non è una squadra come le altre, è un pianeta a sé,
allegro, esagerato, impossibile, umano. Musicale, quanto i radiocronisti brasiliani. Chi
non ha sentito un radiocronista brasiliano al microfono non può capire tutto del loro
calcio, raccontato urlando, cantando, un torrente di parole, pause. Esclamazioni, urla,
suoni di labbra e piena gola per rendere la liberazione del gol, “gooo-ll-aa-zooo!”,
l’attimo più lungo, un mugolio onomatopeico, quasi ad accompagnare il pallone in
rete.
Ma un “mundial è una guerra!”, dicono anche, e non bastano la samba, le mossette
d’anca, il sopraffino della pedata. A un mondiale nessuno vuole perdere e tutti
menano, perciò sarebbe servito molto uno Ziza, coraggioso, resistente. Un cabezazo,
spaccatutto di testa. Contro i vichinghi di Svezia la sua mancanza si è avvertita il
doppio anche perché Zico si fa grande in proporzione al campo asciutto mentre quello
di Mar del Plata è una moquette a brandelli, resa fradicia ogni cinque-sei ore da
ventate di pioggia atlantica. E il Brasile ci dovrà giocare altre due volte.
“Questo campo è il peggior avversario del Brasile, ma non abbiamo una grande
squadra”. A dirlo è Mario Viana, che fu il più grande arbitro brasiliano degli anni ’50
prima di allenare i ragazzi del Palmeiras di San Paolo, tra i quali José Altafini. Mario
Viana ha 76 anni e ne dimostra venti in meno. Mulatto, testa pelata, mascella senza
rotondità, lo chiamavano “il duce” per l’autorità nell’arbitrare, e Giampiero Boniperti

ne sa qualcosa. Quando gli toccò proprio Viana in Svizzera-Italia, 2-1 al mondiale ’54.
Ad una protesta verbale di Boniperti, Viana replicò aggredendolo con un mezzo
ceffone, e infatti deve essere stato l’unico arbitro al mondo espulso dalla Fifa per
violenza a un giocatore.
Ma anche questo fa tanto Brasile, e Viana ci ride sopra trent’anni di ricordi. S’adira,
con labbroni da sbranarmi, soltanto quando gli racconto che il “suo” Altafini
l’avevamo chiamato in Italia “coniglio”. Era un cuore d’oro che aiutava la famiglia,
rammenta Viana, e poteva sembrare un freddo – aggiunge – soltanto perché non
teneva explosion. Più classe che explosion, comprende?.
Questo di oggi è il Brasile di Roberto Rivelino, sangue italiano, 119 partite con la
maglia della nazionale. Ma è anche la squadra degli esclusi, ed è forse per questo che
gli ispiratori di gioco come il tremendista Rivelino e l’euclideo Cerezo non trovano
sicuri approdi. A parte Ziza, hanno escluso Francisco Marinho perché parla troppo e
Luis Pereira perché gioca in Spagna (“altra tactica tipicamente militar, ridiculmente
nazionalista”). E hanno rinunciato anche a Paulo Cesar, piede dolce del Botafogo.
Paulo Cesar Lima lo ricordo quattro anni fa al Josephine Club di Monaco di Baviera,
su quattro metri quadrati di legno, sotto luci psichedeliche. Il Brasile era già stato
stritolato dal calcio atletico degli olandesi, e i carioca ballavano. Paulo Cesar
indossava una camicia di pizzo. Tacchi da ballerina, il sudore gli scendeva a perline
dai capelli d’un crespo fittissimo. Ritmava dondolando, quasi dribblasse la sua
ragazza, sempre più accaldata, sempre più spoglia, sempre più pigra.
In Germania, Paulo Cesar aveva chiesto premi alti per giocare, e non gliel’hanno
perdonato, anche se in Argentina il portiere Leao e Rivelino hanno ora domandato un
milione di cruzeiros, una cinquantina di milioni di lire, per andare in finale. Paulo
Cesar mantiene una mamma e una sorella, non fuma, non beve, è anche molto avaro,
ma ha una sola sfrenata passione, per le camicie, centinaia, è “buono e vanitoso”
dicono di lui. Vanità non gradita alla tactica militar del dt Coutinho soprattutto
perché, alla vanità, Paulo Cesar unisce il sindacalismo. Chiede grossi premi perché il
calciatore del paese più calcistico del mondo non ha assistenza né garanzie, e tuttavia
ha una madre da mantenere , una sorella sfortunata, una ragazza che si spoglia in pista
e una gran voglia di cambiar camicia come pelle.
I brasiliani rimpiangono Pereira, Marinho, Ziza, Paulo Cesar, ma anche il Brasile di
Coutinho potrebbe bastare in un mondiale livellato in basso. “Terra adorada entre
outras mil, es tu, Brasil” canterà l’inno nazionale brasiliano domani contro la Spagna
mentre tra i magici piedi di un terreno infame voleranno i fantasmi di Garrincha, il
passero, e di Pelé, il loro Orfeo nero.