1978 maggio 10 Professione CT
1978 maggio 10 – Professione CT
I trucchi di Pozzo – Gli errori di Winterbottom – Il rifiuto di HH – Il silenzio di
Valcareggi – Il lavoro di Barati – La psicosi di Fabbri – Le marcature di Bearzot
Il Ct è tecnico da competizione e, per molti, ha soltanto un peso psicologico. Ha
scritto Georges Magnane: “Lo sport di competizione, sottratto al suo orientamento
ludico, assume un carattere ossessivo”. Il gruppo sul quale opera un Ct è una squadra
di super-selezionati, potenzialmente esposti alla malattia dei divi. Prendere il
campione e farne “uno degli undici” è il massimo dell’aspirazione del Ct, pianificatore
per istinto e tuttavia obbligato a un metodo individualista.
Il più convinto che il ruolo di un tecnico sia soprattutto psicologico è Gianni Rivera:
“Un allenatore di serie A – ha scritto – vale presso a poco l’altro sul piano della
preparazione fisica e sul piano della preparazione tattica, uno cura la velocità, l’altro
il fondo, uno tiene indietro il mediano destro, l’altro il sinistro, sfumature. E’ sul
piano della preparazione psicologica che uno ha l’opportunità d’imporsi, l’altro di
fallire, la psicologia è un’arte difficile, precaria, lenta”.
Un’arte che trovò in Nereo Rocco l’esemplificazione più meticolosa, perché miscelata
di paternalismo e di cultura piccolo-borghese, d’ironia e di pragmatismo, di brillanti
sedimenti viennesi filtrati dal nonno cambiavalute Rock e di gusto tutto triestino per
la confidenza, “coccola”, intimista, di città sola. “Rocco – è la tesi di Rivera – riesce a
convincere un giocatore scoraggiato, a intimidire un giocatore arrogante, a sfrenare
un giocatore incerto”.
Nel ’60 a Roma, selezionatore unico delle squadre nazionali è Gipo Viani e chiama
Rocco a preparare la rappresentativa olimpica. Entrambi difensivisti, hanno ripudiato
il Wm inglese, teorizzando il “vianema” che libera lo stopper e raffinando il
“cadenasso” padovano. Viani&Rocco, spassoso Ct a due piazze, calibrano di
prudenza tattica la generazione più ricca di piedi buoni dell’intero dopoguerra, da
Rivera a Bulgarelli, da Salvadore a Cella: i risultati della rappresentativa sono, schemi
alla mano, tra i migliori reperti del calcio italiano.
Il che dimostra anche come la visione psicologica del Ct sia incompleta, riducendolo
ad animatore, confessore o medium. In realtà, un Ct ha tempo per influire anche
tatticamente, sia dalla panchina che al momento di scegliere una formazione. Tra gli
interventi più significativi, basti pensare alle marcature, una delle voci che fanno il
composito e spesso misterioso bilancio di una partita.
Nel ’74, al Mondiale di Germania, la scarsa conoscenza del piccolo e rapido
Houseman turbò per una buona ventina di minuti l’intera difesa azzurra: quando il Ct
Valcareggi provvide a marcarlo da Benetti, l’Argentina aveva già segnato con
Houseman. L’anno scorso a Wembley, l’impensabile marcatura di Keegan con
Zaccarelli mandò in pochi minuti in gol l’Inghilterra: a dire il vero, il Ct Bearzot
s’avvide prestissimo dell’incongruenza e tuttavia il baccano dello stadio e la
lontananza della panchina dal terreno di gioco gli impedirono di trasmettere
tempestivamente la correzione.
Le magre di un Ct in fase d’impostazione possono diventare storiche, come toccò
all’inestinguibile Ct inglese Winterbottom contro l’Ungheria a Wembley, nei primi
anni del ’50. Sulle ali ungheresi, Winterbottom mandò i terzini e tenne invece i
mediani a marcare Puskas e Kocsis, i due interni che funzionavano in pratica da
centravanti. Risultato: 6-3 per l’Ungheria, il tempio del football ne uscì tritato.
Lo stesso Vittorio Pozzo, commissario unico per antonomasia, campione del mondo
nel ’34 e ’38, pur non passando per un’aquila di tattica s’affidò a Parigi ad una
ingegnosa gherminella per ovviare al divieto-Fifa di dare disposizioni da bordo
campo. Fece coricare davanti alla panchina il preparatore atletico Burlando e,
parlandogli in dialetto piemontese, riuscì più di una volta a trasmettere consigli ai
giocatori. Con l’aria indifferente, di chi si sgranchisce le ginocchia, Burlando si
spostava a fare il postino azzurro senza insospettire i commissari.
Ma Pozzo era il prototipo degli psico-Ct. Inventò nei ritiri le camere a due letti, a
coppie di giocatori di club diversi, per smaltire le avversioni di campionato, allo
stesso modo di Bearzot che, alla vigilia di un’amichevole con la Spagna a Madrid,
diede la stessa camera a Pruzzo e Paolo Rossi, i due attaccanti in concorrenza per la
maglia numero 9. Pozzo ha negato di aver intonato sistematicamente, nello
spogliatoio, l’inno del Piave o di Mameli per condizionare i giocatori ma, in occasione
di una partita con l’Ungheria a Budapest, lui stesso ammise di essersi “appellato alla
patria”. Richiamo allora plausibile e non sterile nonostante un professionismo già
organizzato e pagatore: nel ’42-’43 Mazzola e Loik passarono dal Venezia al Torino in
cambio di Petron e di un milione in contanti!, cifra molto importante.
Di Ct, in Italia, ce ne sono di tutti i tipi. Italiani e stranieri, protagonisti di campionato
e carneadi, provinciali e ammagliati al grande giro, in coppia o a tre o “unici”, anche
giornalisti, come Aldo Bardelli nel ’50 assieme a Novo, patron del Torino.
L’ungherese Lajos Czeizler fu Ct azzurro dopo essere stato licenziato dal Milan.
Herrera fu prestato alla Nazionale dall’Inter di Moratti. Per usare un’espressione di
Gianni Brera, Fabbri passò da Mantova alla Nazionale potendo contare sull’appoggio
del “club del tortellino”, il clan che faceva capo a Beppe Pasquale, raìs federale degli
anni ’60. Valcareggi colse l’investitura dopo la Corea, da vice di Fabbri: “Un tipo
calmo” lo definì Franchi davanti al consiglio federale del 1966 e fu tale virtù a
procurargli il contratto.
Tranne rarissime eccezioni, il Ct italiano viene pagato poco, tanto da apparire il meno
professionista tra iper-professionisti. La federazione non investe quanto un club
perché, con ottica da parastato, punta su un costo “politico” della panchina azzurra ed
evita di entrare nel meccanismo del mercato. Paradossalmente, accade così che la
squadra-vettore qual è la nazionale ricorra a volte a guide tutte da inventare e perciò
esposte a manipolazioni federali.
A proposito dell’autonomia del Ct, si parla sempre di carta bianca, omettendo di
frequente la sottostante scrittura privata, che è la chiave di lettura del complicato
linguaggio azzurro. Se Herrera ci mise pochi giorni a dimettersi per palese
insofferenza al triumvirato con Mazza – Ferrari e se bastò un’intervista televisiva a
svelare la gelosa convivenza tra Bernardini e Bearzot, ancora oggi né Valcareggi né il
supervisore Walter Mandelli hanno scritto il loro memoriale sul Mondiale del ’70 in
Messico: il caso-Rivera consentì tutte le illazioni. “L’ultima parola è sempre la mia”
assicurava Valcareggi, raccogliendo molto scetticismo, e il signorile sorriso di
Mandelli.
“C’era troppa gente attorno alla Nazionale” sostiene Gigi Riva riferendosi a
Stoccarda ’74, nel tormentato e kafkiano ritiro del “Mon Répos”. Tuttora l’esclusione
di Rivera-Riva dalla partita con la Polonia o la mancata cacciata di Chinaglia dopo il
clamoroso gestaccio del centravanti verso il Ct a Monaco non sono usciti svelati dalla
nebulosa di competenze e influenze, tra Franchi e Carraro, tra Allodi e Valcareggi.
Il fatto è che la Nazionale, per quanto concepita quale squadra di tutti, viene gestita
come “cosa loro”. Nel paese di 53 milioni d’aspiranti Ct, l’unico Ct è parafulmine di
un Potere calcistico destinato a sopravvivere ad ogni Ct, ad ogni Corea, a qualsiasi
risultato. Attorno alla sua panchina, le sconfitte celebrarono deserti di solidarietà, le
vittorie cumuli di merito dove finiscono per contare anche i bulloni piantati dal
magazziniere.
Nell’Italia delle Signorie, dei Comuni e del campanile, non esiste Ct che, al momento
delle convocazioni, non sia stato imputato di abuso od omissione. Ma non si tratta di
un vezzo all’italiana, piuttosto è meccanismo legato alla relatività del football. Come
il Candido del romanzo di Voltaire, il pubblico coltiva il proprio orto e la stampa
meno preparata ne proietta le esagerazioni su orizzonti bassi quanto siepi di cortile.
Sicché la Nazionale è quasi sempre la squadra degli assenti, dei grandi esclusi, degli
incompresi.
Helenio Herrera fu anche Ct della Nazionale spagnola e, il giorno in cui venne
presentato ai giocatori, Di Stefano, Gento e Mateo gli rifiutarono la stretta di mano,
bastando un’intervista di quattro parole a scavare rancori e ripicche. Tatticissimo Ct
del Brasile, l’oriundo italiano Vincente Feola fu con Fabbri il tecnico più
spernacchiato del Mondiale ’66: nessuno era disposto a riconoscergli l’alibi del
premeditato massacro dei mediani-killer su Pelé, ma tutti gli rinfacciavano d’aver
lasciato a casa i “giocatori migliori”, Dino Sani e Servillo.
Nonostante l’aria di pubblico ufficiale al di sopra della mischia, il Ct è uomo, odia,
ama, nutre simpatie e avversioni d’istinto. Fabbri detestava Herrera, e ne ripudiò gli
schemi, Picchi, il modulo vincente. HH nutriva, da Ct spagnolo e italiano, stima
illimitata per Suarez e Facchetti. Luisito era superstizioso; convinto che un bicchiere
di vino rovesciato inavvertitamente sulla tovaglia fosse presagio di un suo gol,
bagnava le dita e se le passava sulla fronte e sulla punta delle scarpe: alla vigilia di un
paio di partite delle “furias rubias”, lo stesso Herrera provocò l’incidente propiziatore.
Maghi e fragili leggende del calcio si nutrono spesso di grottesco e d’ingenuo.
L’ipocrisia delle pubbliche relazioni precisa il carattere del Ct, soprattutto dal
dopoguerra in poi, nella capillarità dei mass-media. In Cile nel ’62, la paralisi di una
gestione collegiale rese massiccia l’interferenza della stampa. In Inghilterra nel ’66,
Fabbri cadde preda di una psicosi di accerchiamento, e la “Scuola dell’agricoltura” di
Durham fu comica sede di controlli, spiate, liti, fiale, congiure, da Borgia plebei che
credevano al diavolo, e il diavolo era riconoscibile dalla portatile. Io stesso fui
cacciato a pesci in faccia mentre, in attesa di telefonare alla moglie in Italia, Mazzola
mi consentiva un’intervista acqua e sapone.
Fu in Inghilterra che Valcareggi, allora vice-Fabbri, osservò gli allenamenti dei
sovietici definendoli “monotoni” e andò a visionare i coreani chiamandoli tanti
“Ridolini”: l’Italia perse 1-0 sia con l’Urss sia con la Corea e da quel giorno
Valcareggi decise che il silenzio è il più redditizio tra i linguaggi di un Ct. memore
dell’epigramma di Goethe secondo il quale “quando s’apre bocca si comincia a
sbagliare”. Valcareggi limitò le interviste all’ovvio, le rivelazioni ai mai rivelati diari
personali, i giudizi alla tabula rasa di ogni concretezza. Il suo era un muro di gomma
dal quale uscivano svirilizzati critica, dissenso, persino lo scherno.
Gipo Viani ed Herrera aggressivi, Rocco paterfamilias, Fabbri ombroso, Valcareggi
cattivo conduttore di elettricità, Bearzot conciliante. La Nazionale esprime il pathos
del Ct soprattutto quando, sull’esempio di Rocco, la visone tattica del tecnico viene
ampiamente riveduta e corretta a seconda dell’opinione dello “spogliatoio”, vale a dire
dei giocatori. Tutto il mondo è paese e, se è vero che Feola inventò l’ala sinistra
tornante Zagalo, è altrettanto vero che il centravanti del Brasile e del Santos fu sempre
scelto da Pelé. E quattro anni fa in Germania, la rinuncia a Netzer fu dettata al Ct
tedesco Helmut Schoen dal clan Beckenbauer.
Psicologicamente importante, tatticamente utile, dove un Ct italiano non può mettere
dito è sulla preparazione fisica, che eredita sic et simpliciter dal campionato, a blocchi
o a mosaico che se ne appropri per far squadra. Rispetto a molti colleghi stranieri, il
Ct all’italiana è depauperato, conta la metà. Non ha a disposizione lunghi ritiri, né
molti test e le poche amichevoli finiscono trafelate, preoccupate come sono di
interferire sul campionato e sul Totocalcio, tuttora unico finanziatore dello sport
italiano.
Lajos Baroti, Ct d’Ungheria, conta e lavora molto di più del Bearzot di turno,
impegnato per dieci mesi all’anno a fare l’osservatore di partite, come testimoniano i
suoi 60 mila chilometri di volo alla scoperta del calcio internazionale. In Ungheria,
ogni settimana, i 18-20 giocatori della Nazionale vengono per due giorni sottratti ai
rispettivi club e consegnati allo staff di Baroti, per due allenamenti al giorno. Il
campionato scorta la Nazionale, non viceversa, e i giocatori sono tanto a disposizione
del Ct che Baroti sta da tre anni trovando il tempo di riformare in Nazionale il modulo
del campionato: gli ungheresi marcano a zona, l’Ungheria marca a uomo.
Non prendendo a modello né la pianificazione dell’Est né i privilegi concessi alle
Nazionali in Sudamerica, l’Italia improvvisa. La Nazionale è un’emergenza del
campionato, con 30 milioni di potenziali telespettatori. In questa contraddizione tra
organizzazione ed eco popolare galleggia il Ct, buffo mistero.