1979 novembre 12 Inter e Milan affossano le torinesi
1979 novembre 12 – Inter e Milan affossano le torinesi /
Scudetto: una questione milanese?
MILANO – Il Piemonte è uscito a pezzi dal derby con la Lombardia:
Juve e Torino hanno ora cinque punti in meno dell’Inter, tre in
meno del Milan! A circa un terzo del campionato, San Siro
ridiventa senza incertezze l’ombelico dello scudetto: soltanto
l’ombra di portentosi sorpassi potrebbe a questo punto rimettere in
discussione i colori della classifica.
Soprattutto la Juve ha sofferto un poker a dir poco sconcertante
per i suoi ricchissimi annali. Ciò anche se il 4-0 è tutto maturato nel
secondo tempo, peggio di una tempesta agonistica abbattutasi
dopo il rigore (al 48′) di Scirea su Altobelli: il primo penalty
concesso quest’anno all’Inter e non a caso ho visto al centro della
tribuna il berrettino scozzese dell’Ivanoe Freizzoli e il ciuffo platino
della Lady vibrare quanto coccarde al vento.
L’inatteso sole sullo stadio, i 15 mila garofani distribuiti con lo
slogan “se proprio vuoi, lancia un fiore”, il tono vibrante della
partita, le quattro reti, la curiosità per il tempestoso dopo-mercoledì
di coppe europee, tutto ciò ha restituito a Inter-Juve lo smalto della
“partitissima”, un superlativo dello sport che pareva defunto nei
mille tormenti di questa Milano anni Ottanta.
La cosa mi ha messo curiosità, tanto da indurmi a chiedere: che
cosa significa una “partitissima” oggi, il meglio del calcetto
autarchico in una megalopoli come Milano, “una città che ha
paura” l’ha chiamata il sindaco Carlo Tognoli.
Mentre mi proponeva al bar quello che lui chiama un molto
salutare colpo (tazzina di caffè ristretto più gotto di buon whisky),
Gianni Brera ha risposto: “E’ tutto uguale ma l’uomo serio, la gente
per bene, sta numerosa a casa, per paura”.
Romanziere trentino, classificatosi terzo al Premio Campiello con
La luna ride, Rolly Marchi sembra dello stesso parere: “E’
cambiata l’atmosfera. Una volta si cantava, oggi si urla; una volta
si scommetteva, oggi si affilano bastoni, ma è sempre lo stesso
istinto che ti porta al grande spettacolo”.
Un istinto che resiste alla paura e che è un miracolo di
sopravvivenza soprattutto se confrontato alle stagioni dell’oramai
preistorico boom. Anche se Giorgio Bocca denunciò già all’inizio
degli anni Sessanta l’arrivo a Milano della “grande mafia”, quella
era ancora una Milano con il coeur in man, che chiamava lo stadio
di San Siro la “Scala del calcio” e dava al football grandi famiglie,
mecenati dell’editoria e del petrolio. Lo stesso crimine aveva
conservato un suo codice tanto da aver resa clamorosamente
incruenta la celebre rapina di via Osoppo, quando sette banditi in
tuta da meccanico si servirono di pistole scacciacani!
Dal terrore politico di piazza Fontana nel ’69 al terrore mafioso
degli otto scannati di Moncucco nel ’79, questa città si scrive
ancora Milano ma andrebbe pronunciata “Malano”, la metropoli
fattasi male, terreno di coltura di tutti gli innumerevoli e marci fiori
del male prodotti dall’anarchia capitalistica come l’ha ieri chiamata
lo scrittore milanese Carlo Castellaneta.
In un’Italia senza capitali morali, anche Milano ha ammainato il suo
stanco primato. Persino il Duomo porta le stimmate di chiesa di
frontiera. Ci sono stato ieri mattina. Gli incensi dell’altare maggiore
salgono tra colonne pateticamente imbragate da decine di tubi
metallici e di sostegni d’acciaio su fino alle navate. L’organo e le
voci bianche del canto ambrosiano sono a tratti percorse dallo
strisciare della metropolitana, che corre sotto il sagrato come un
ruvido topo. Un misticismo sofferto, che affonda antiche pietre fin
dentro le angosce dell’oggi.
“Ho sempre pensato – mi confessa molto perplesso Giampaolo
Ormezzano uscendo dallo stadio – che il calcio riflettesse la
società meglio di uno specchio. Perciò, la Milano città tormentata e
il suo calcio fino a un paio d’anni fa in crisi nera mi sembravano tra
loro di una coerenza sociologica perfetta. Oggi i nostri schemi
vengono smentiti: San Siro, almeno quello, smentisce la città; il
calcio milanese funziona per conto proprio. Anzi, mai come oggi
serve a far evadere e a far dimenticare”.
“Anche se il divertimento degli anni Sessanta – ribadisce il gourmet
quasi privato del Milan, Ottavio Gori – ora ce lo sogniamo proprio”,
il cielo pulito di San Siro, il suo calcio privo di fumogeni, una
partitissima anche polemica e purtuttavia corretta, ieri hanno
almeno allentato l’ossessione, restaurato briciole di fair play,
restituito l’illusione di attimi rilassati, per quanto sotto vuoto spinto,
sempre esposti al pericolo del raptus.
E’ un grossissimo risultato questo, che supera anche l’esito
tecnico. Basti pensare che, due settimane fa in occasione del
derby con il Milan, la segreteria dell’Inter ci aveva rilasciato una
desolante ammissione: la poltronissima di tribuna centrale, posti
da 50 mila lire, non veniva nemmeno posta in vendita perché, dal
bordo a perpendicolo dell’anello superiore in cemento, una
tradizione da latrina faceva colare liquidi organici.
Con tali premesse era obbligatorio guardare ieri a due partite,
quella in campo e quella sulle gradinate: e il risultato è stato
confortante particolarmente sulle seconde. Quanto al primo, l’irato
silenzio delle Juve nello spogliatoio ha l’aria di accusare l’arbitro
Michelotti più che valere come mia culpa.
E’ destino che anche squadroni come la Juve guardino alla
meccanica di un rigore più che alle proprie vistose lacune di
squadra. Fra l’altro, Albertone Michelotti di Parma, iscritto a un
cenacolo di cultori della lirica con lo pseudonimo di Don Carlos, ha
cinquant’anni di familiarità con il melodramma. Giuseppe Verdi gli
serve anche ad arbitrare partitissime.