1980 agosto 2 Il trionfo più brutto
1980 agosto 2 – Il trionfo più brutto
Dall’inviato
MOSCA – La morte aveva un volto ed era quello di Yifter, il Viren negro, l’etiope che
a trentasei anni ha vinto diecimila e cinquemila metri. Dall’ultimissima curva è uscito
con una terribile smorfia di sofferenza, uno strato di pelle sudata a coprirgli appena
tutti gli angoli del teschio.
É l’atleta più brutto dell’olimpiade. Piccolo, spigoloso, stortignaccolo, pelato fino a
metà testa. Si fa fatica a immaginarlo sul podio che fu di Viren, la betulla finlandese
che per ritrovare freschezza si sottopone alla pioggia di globuli rossi, sangue e boschi.
Yifter è l’altipiano africano, la morbida solitudine degli etiopi, vagheggiata in un
misto di sogno e di marijuana da Bob Marley, il re del reggae. Il reggae di Yifter è la
cadenza. Fidia non avrebbe saputo da dove cominciare dovendogli scolpire una statua
per il Partenone; in Yifter il fascino del fondo sta tutto in una resistenza tragica.
Questa sì greco-antica, di maschera da teatro epico.
Il più brutto dell’olimpiade ha vinto tutto quanto poteva vincere. Il più bello ha perso
tutto quanto poteva perdere, l’oro e il primato del mondo: Jacek Wszola, l’apollo
polacco del salto in alto, si è fermato a 2 e 31, quattro centimetri sotto il suo record.
La brezza del tramonto gli scuoteva i lunghi capelli biondi da arcangelo. Portava una
polsiera con i colori di Polonia, un anello, due collane hippie. C’era mare azzurro nel
suo sguardo, un volto hollywoodiano, un profilo di efebiche sconvolge le ragazzine.
Quando progrediva nelle ascensioni, non sparava come gli altri i pugni al cielo;
allargava le braccia, come un airone che plana. Suo allenatore è il padre, che
aspettava una spinta da oro. Ma l’airone era braccato da un tedesco dell’Est, rapato
corto, l’incudine timbrata sul petto, una mascella innervata di ghisa. Gerd Wessig
aveva l’ascensore, ieri sera, riuscendo a salire fino all’attico di se stesso: 2,36
mondiale!
L’atletica leggera ha salutato così Mosca ’80, fascinosa come sempre, mentre i
teleschermi replicavano decine di volte l’ultima faccia di Wzsola, l’apollo al quale
l’argento dava soltanto tristezza, documento della sconfitta.
In un’orgia di staffette dove i tedeschi dell’Est, i più pianificati e collettivisti
d’Europa, sbagliavano il gesto più collettivo, che è il passaggio del testimone,
l’atletica ha chiuso esaltandosi nel mezzofondo, cuore della corsa, tra sprint e
resistenza.
Sui 1500 dei due sessi, l’inglese Coe e la sovietica Kazankina non hanno avuto
avversari. Nemmeno l’altro inglese, Ovett, lo è stato per Coe, che ha fatto balzare in
piedi nove giornalisti britannici su dieci, tutti «coeisti», con un tifo preso a prestito
dal football.
Il mezzofondo ha parlato a Mosca anche il dialetto vicentino! Tra i maschi con
Vittorio Fontanella di Chiampo, tra le femmine con Gabriella Dorio di Cavazzale.
Quinto con Fontanella; quarta Dorio a tempo di primato italiano.
Gabriella ha lasciato alle spalle tedesche, russe, rumene. Forse avrebbe potuto persino
prendere il bronzo, con un rush finale più anticipato, ma Gabriella ha 23 anni, i
capelli al vento, la possibilità di migliorarsi ancora, dicono che valga addirittura due
secondi in meno. É la più carina del mezzofondo e i tecnici si augurano che abbia
anche la pazienza di continuare ad allenarsi duramente per essere a Los Angeles tra le
eredi della Kazankina, trentenne, ossuta, il sorriso che le appare scarno e rado come
una stella alpina.
Il Coni non lo voleva nemmeno portare a Mosca, Fontanella. C’è stata una mezza
baruffa, finché la Federazione di atletica ha insistito: ed eccolo qua, quinto, questo
professore di educazione fisica che prese gusto a correre prima in seminario, poi nelle
campestri. Così come il marciatore d’oro Damilano lo ha preparato un fisiologo di
Ferrara, il prof. Francesco Conconi, specialista in test e dosaggi atletici. Un risultato
anche suo.
Mentre la maratona consumava gli ultimi dei suoi 42 chilometri e 195 metri, Pietro
Mennea ha corso l’ultima frazione della 4×400 portando all’Italia il bronzo correndo i
suoi 400 metri in 41’ e 87, il miglior tempo dei trentadue concorrenti. «Nessuno sa chi
è Mennea», mormora di sovente Pietro di Barletta: come non dargli ragione? Dai 100,
ai 200, ai 400 della staffetta nessuno ha fatto una velocità media pari alla sua.
Scendeva sera quando un tedesco di origine polacca, Cierpinski, entrava allo stadio
Lenin alla media di venti all’ora abbondanti. La maratona era sua, dopo essere passato
dal Cremlino al Parco Gorkij, da via Puskin alla Collina dei passeri, fino alla stazione
per Kiev.
Mancavano i tre migliori, gli americani, e due studiosi hanno recentemente pubblicato
un’indagine secondo la quale Filippide e la sua folle corsa da Maratona ad Atene non
sono mai esistiti. Mera invenzione di greci decaduti per ritrovare nei miti il vigore dei
secoli d’oro.
Ma tutto questo Waldemar Cierpinski non lo sapeva proprio. Era lui Filippide, a
Mosca, e questo gli bastava. Se anche era fasulla quella antica, era tutta vera la sua
leggenda di sovrumana fatica.
L’atletica aiuta.