1980 febbraio 7 Arbitri e pubblico turbati da strane designazioni

1980 febbraio 7 – Arbitri e pubblico turbati da strane designazioni

* Bergamo dirottato da Udine a Bari
* Chi ha impedito che Menicucci fosse già internazionale
* Agnolin perde la pazienza e salta un turno
* Milan inspiegabilmente fermo da 3 domeniche
* Reggiani e Longhi tre partite in una settimana!
* Sarebbe provvidenziale un do di petto di Michelotti

Arbitrare è difficile anche perché, come ha acutamente osservato Sandro Mazzola, “le
decisioni vanno prese rapidamente e sotto sforzo”. Ma non è facile nemmeno
designare gli arbitri, cosa che da una decina d’anni dipende dal commissario della Can
(Commissione arbitri nazionale) Giuseppe Ferrari Aggradi. Suoi vice sono oggi
D’Agostini Gonella Gussoni e Jonni.
Non è facile designare per più di una ragione. I sospetti della pubblica opinione. Le
allergie delle società verso l’arbitro tizio o caio. La concorrenza tra arbitri. L’esigenza
di un minimo di rotazione. Il tipo di partita e la forma, naturalmente non stabile, degli
arbitri chiamati a dirigerla.
Fino a cinque-sei anni fa il meccanismo delle designazioni era rigorosamente
piramidale. Le “partitissime” andavano sempre al super, i Lo Bello, gli Angonese, gli
Sbardella. Giù fino agli ultimi della classe, il gioco era abbastanza automatico, le
graduatorie di merito chiare, lo spazio molto stretto per le sorprese.
Dopo il Mondiale del 1974 maturò una rivoluzione abbastanza sensibile. Ferrari
Aggradi lanciò lo slogan “largo ai giovani” e bisogna dire che, anno dopo anno, la
Can premette con coerenza su tale acceleratore, stimolante quanto rischioso.
Tanto per dare l’esemplificazione di che cosa debba intendersi nel mondo arbitrale
“largo ai giovani”, basterà ricordare che Bergamo divenne internazionale nel giro di
due anni, quasi un record. Che lo stesso Milan di Treviso (oggi trentottenne) esordì in
serie B pur avendo alle spalle una sola stagione alla Can.
Tutto il meccanismo delle designazioni prese inoltre a funzionare con disinvoltura
sconosciuta al passato. Meno rigidità, meno verticismo, meno culto della personalità;
più mobilità; più livellamento, più coraggio nel puntare su nomi in rodaggio.
In linea generale, tale politica sembrò molto appropriata anche perché serviva ad
allontanare la vecchia proposta di Helenio Herrera a favore del sorteggio: cioè la
scelta della partita e del relativo arbitro affidata alle palline, come i numeri del lotto.
Proposta quest’ultima che aveva due difetti:
1) di ufficializzare una strisciante sfiducia nel potere arbitrale;
2) di rendere artificialmente uguali partite e arbitri per niente uguali.
La nuova politica della Can ha tuttavia allevato un pericolo non trascurabile, anzi
consolidatosi parecchio nelle ultime stagioni: vale a dire un eccesso di discrezionalità.
Un metodo di designare sempre più “personale”; tanto personale da risultare a volte
incomprensibile e, soprattutto, tale da creare sconcerto, sfiducia, gelosie tra gli stessi
arbitri.
Nei confronti di alcuni arbitri si nota un occhio di eccessiva benevolenza; nei
confronti di altri, un rigore a volte immotivato. Gli stessi commissari speciali, inviati
sui campi a controllare e riferire per conto della Can sugli arbitraggi, spesso diventano
strumenti di tale deviazione di vertice usando due pesi e due misure: vanno alla
ricerca del pelo sull’uovo con arbitri senza padrini; chiudono un occhio con quelli più
simpatici al vertice.

Le situazioni sconcertanti sono più d’una. Un arbitro tecnicamente non eccelso quale
Lops nel giro ci sta sempre. Reggiani pure. Anzi, proprio a Reggiani, come al giovane
ingegnere romano Longhi, è toccato di recente di vedersi attribuire tre partite in una
settimana! Una di A, una di B e, in mezzo, una di Coppa Italia, alla faccia
dell’articolazione degli incarichi.
Il toscano Menicucci, l’arbitro “ridens”, sarebbe addirittura già internazionale
dall’anno scorso, e ciò nonostante incidenti a ripetizione che ne hanno messo in
discussione, più che la tecnica, lo stile, il temperamento, un approccio il più delle
volte inaccettabile con giocatori professionisti. Non fosse ancora sulla breccia il
presto cinquantenne Michelotti e non fosse Giulio Campanati, presidente dell’Aia
(settore arbitrale della Federcalcio) notoriamente sensibile agli aspetti umani dei
direttori di gara, a Menicucci la patente di “internazionale” non gliela avrebbe tolta
nessuno.
Ricordando la lunga gestione di Saverio Giulini, ex-presidente Aia e Can, Piergiorgio
Bertotto ricordò nei giorni scorsi sul nostro giornale come “Bergamo avrebbe
certamente chiuso la carriera” se, ai tempi di Giulini, avesse smentito davanti al
pretore quanto aveva sottoscritto nel rapporto arbitrale. Invece, giusto la domenica
successiva alla deposizione davanti all’autorità giudiziaria, Bergamo fu inviato in
serie B a Bari.
Insomma, arbitrò come se nulla fosse accaduto. A onor del vero, bisogna tuttavia
riconoscere che la Can modificò in fretta e furia almeno tre-quattro designazioni,
quella domenica. Bergamo era infatti stato precedentemente destinato a Udinese-
Perugia, dove fu sostituito da Michelotti: il rapido “giro” consentì almeno di
retrocederlo in B, rendendo meno appariscente la cosa.
Di fronte ad atteggiamenti tanto elastici verso alcuni, ci s’imbatte altrove in secche
chiusure, come capitato nel Veneto con Agnolin (trentasettenne internazionale) e con
Milan (da cinque anni nella Can). Che siano Veneti non interessa: noi guardiamo
all’efficienza e all’onestà degli arbitri, indipendentemente dal loro luogo di nascita.
Non a caso abbiamo in questi anni sempre additato quale paradigma di arbitro Alberto
Michelotti di Parma, per difendere il quale da assurde accuse di congiura anti-Milan
proprio Campanati si dimise dalla Can alla fine dei rutilanti anni ’60.
Ebbene, Milan è inspiegabilmente fermo da tre turni. Poiché in gennaio aveva
benissimo diretto Pisa-Atalanta e Cesena-Parma, nemmeno lui ha saputo darne
ragione: “Non ne conosco il motivo – ci ha risposto al telefono – e del resto, se anche
lo conoscessi, non potrei renderlo pubblico”.
In certa misura più paradossale il caso di Agnolin. Venerdì undici gennaio scorso a
Milano, l’hotel Principe di Savoia ospitava il tradizionale incontro tra dirigenti e
arbitri per lo scambio degli auguri del nuovo anno. L’appuntamento era fissato alle 19
ma i dirigenti, impegnati sulla questione degli stranieri, si fecero vivi soltanto alle 21
e 20. Nel frattempo, Agnolin aveva legittimamente perso la pazienza ed era rientrato a
Bassano.
In genere, i dirigenti arbitrali sono soliti toccare ai raduni dei loro tesserati tutte le
patetiche corde dei sacrifici sostenuti dalle famiglie degli arbitri: “vedove della
domenica” non mancano anzi di chiamare le mogli degli arbitri. Ebbene, il rientro a
Bassano di Agnolin (che pur aveva inutilmente atteso fino alle 20 e 30, per un’ora e
mezza) è costato all’arbitro internazionale almeno un turno di sospensione, pagato
l’altra settimana! Per opportunità, Agnolin e la Can smentiranno tale versione che
però ha un solo difetto: di essere autentica al 100 per cento.
Stranissime sospensioni come quelle toccate a Milan o strane come quelle toccate ad
Agnolin fanno a pugni con designazioni di arbitri di primo pelo in partite

tradizionalmente scabrose quali Perugia-Lazio di domenica scorsa. In quell’occasione,
l’esordiente Ballerini di La Spezia andava in vistoso tilt, fra l’altro omettendo la
concessione del calcio di rigore su un placcaggio a due mani di Manfredonia su Rossi
che avrebbe messo in imbarazzo persino un arbitro di rugby.
La discrezionalità della Can porta evidentemente troppo lontano, prendendo ruggine.
Che sia Ferrari Aggradi a gestire anche gli anni ’80 o che, come si sussurra
nell’ambiente, tocchi dalla prossima estate ad un erede a lui gradito, c’è l’esigenza di
restituire maggiore credibilità alle designazioni. Ciò in omaggio all’opinione pubblica
e agli stessi arbitri, mai come oggi turbati nonostante l’apparente bonaccia della
“casta”.
Forse sarebbe provvidenziale che, prima di andare in pensione, Albertone Michelotti
usasse il suo prestigio e il suo noto amore per la lirica regalando al mondo arbitrale un
salutare do di petto, fatto di anticonformismo e di chiarezza. Un testamento morale
per le migliaia di bravi, giovani, coscienziosi arbitri italiani.