1980 giugno 20 Il nostro calcio merita… la finalina
1980 giugno 20 – Il nostro calcio merita… la finalina
EUROPEI ’80 / Domani a Napoli contro la Cecoslovacchia (tv 1, ore 20.30) si gioca
per il terzo posto
La Nazionale esce dal campionato e il campionato è sempre peggio: sei undicesimi
sono della Juve, mediocre in zona-scudetto e liquidata in coppa – Il meglio sta tutto
nei 22 scelti: da noi tipi come Rummenigge, Müller o Van Moer non ci sono
Dall’inviato
ROMA – In tre partite europee, chi sono stati i migliori tra gli italiani? Collovati,
Gentile, Scirea. Tre terzini! É abbastanza naturale che l’Italia abbia segnato un solo
gol in 276 minuti e che a farlo sia stato un mediano-marcatore, Tardelli.
Il dramma è che anche il Belgio conosce benissimo l’arte del bunker e non ha fatto
una piega nel lasciare in panchina il goleador Vandenbergh, Gigi Riva fiammingo. Il
Belgio non soltanto ha dimostrato di saper strozzare gli spazi; ha elargito anche un
contropiede sferzante, rapido quanto i suoi due giovani levrieri, Van der Elst e
Ceulemans.
Ha ragione Bearzot quando, da almeno un anno, va sostenendo che il contropiede non
è più fatto per la sua Nazionale: né Bettega né Graziani né Causio hanno l’esplosione
degli undici secondi sui cento metri.
L’Italia ha cercato il gol manovrato. Soprattutto il suo secondo tempo ha offerto
scampoli ariosi, nonostante l’assenza di Antognoni. A prescindere dalla manata che
ha scippato il pallone a Bettega in sfondamento, il gol ci stava, in almeno quattro
occasioni. Chi non segna ha sempre torto, ma la Nazionale non ha sempre fatto
scempio di gioco.
Non ho mai ritenuto «trionfi» certi 0-0 della storia del calcio italiano, quando la
Nazionale concedeva agli avversari di esercitarsi per 90 minuti al tiro al piccione. E il
piccione era Zoff, spesso non impallinato solo perché le vie del football sono
imparentate con la provvidenza. Trovo altrettanto iniquo considerare lo 0-0 con il
Belgio un buco nero, senza fondo. Non fu vera gloria pallonara nemmeno l’1-0 del
1973 a Wembley, con l’Italia scorticata da dieci palle-gol inglesi; non è una vergogna
lo 0-0 dell’altra sera.
La mini-finale è sciapa, ti blocca, sa di manomorta, anche perché giocata in casa. A
guardar bene è però quanto ci compete. Il calcio italiano degli anni ’80 è questo,
buono per Napoli, non per la finalissima di Roma. Va detto con molta pacatezza,
senza dispetto.
La nazionale esce dal campionato e il campionato è sempre peggio. Sei undicesimi
dei titolari sono della Juve, mediocre in zona-scudetto e liquidata in Coppa. Qualcuno
urla che ci vuole l’Inter, le forze nuove, Beccalossi: dimentica che pure l’Inter ha fatto
prematura fine in Coppa e che persino Bersellini sbattè fuori in più di una circostanza
Beccalossi, non ancora con l’aplomb internazionale.
Non esiste una Nazionale clandestina, una squadra tenuta nelle catacombe: il meglio
che c’è sta tutto in quell’elenco di 22 giocatori. Li puoi senza dubbio rigirare meglio
di quanto non accada oggi, ma i Rummenigge non ci sono nello sgabuzzino di
Bearzot.
In campionato si gioca da cani, gli allenatori pigliano sempre più soldi e servono
sempre a meno. Non c’è un’idea, una ventata correttiva. Quel che sopravvive negli
stadi è il tifo, figlio provinciale, non lo spettacolo, figlio del mondo. «Se non arriva lo
svincolo» – avverte Giacomini – «il calcio è morto». Perché la libera contrattazione tra
società e calciatore consentirà almeno di non dare lavoro ai lavativi, sfaticati e
bucanieri. É la psicologia dell’ozio e dell’avidità che partorisce anche l’azzardo, la
scommessa, la tentazione del trucco
«L’Italia ha già vinto gli Europei» diceva un nostro recente titolo. Era un paradosso
per sottolineare che, in un’atmosfera corrotta da scandali e decadenza, non si poteva
chiedere alla Nazionale di giocare in apnea, come se niente fosse. Per qualunque
risultato aveva già pronto l’alibi, un alibi che reggeva. Senza atmosfera non si gioca
al 100 per cento e questa Nazionale è arrivata all’Europeo con le toppe; prendendo
l’ultimo bus, aspettando di fare le liste dei giocatori con gli esiti delle sentenze. É
andata in vetrina con stile proletario e gli eroi sbertucciati: «Ladro, mejo Graziani» ha
gridato qualcuno a Rossi prima dell’ultima udienza qui al processo di Roma.
Domani la finale di Napoli conta poco, terzi o quarti non cambia granché in una
partita a lampade spente. Lo 0-0 con il Belgio è uno stop. Anche senza essere doloso,
chiude una fase della Nazionale e apre un nuovo balcone sul domani. La destinazione
sarà oramai il Mondiale 1982 in Spagna, per il quale Bearzot ha già in tasca da tempo
il contratto. É con quella data che il Ct dovrà d’ora in poi fare i conti, sfruttando
anche l’opportunità di un fascinoso test il prossimo Natale in Uruguay dove il
Mundialito metterà insieme tutte le Nazionali che hanno vinto almeno un campionato
del mondo, dall’Italia all’Uruguay, dall’Argentina al Brasile, dalla Germania
all’Inghilterra (che sarà sostituita dall’Olanda).
Non è lo 0-0 con il Belgio che che archivia più di una cosa; è il tempo. Anche
andando in finale, questa Italia era obbligata ad aggiornarsi; ora ne prende atto con
maggiore decisione. Quando si è delusi, si cambia con meno patemi.
Anche se Zoff è integro, pare difficile che possa arrivare in Spagna, a 40 anni e
mezzo! Il trentacinquenne Benetti ha chiuso; il Belgio è stato il suo patetico
benservito. A fine anno, Bettega compirà trent’anni, non pochi per un attaccante che
nel ’72, se ricordo bene, riuscì a superare con molta forza d’animo una malattia molto
scomoda per un atleta. Causio s’avvia oramai verso i 32 anni e ha fatto degli Europei
la sua piccola Waterloo, non essendo mai riuscito a superare con il talento l’handicap
di una forma assai rabberciata.
Zoff, Benetti, Bettega, Causo: sia pure con sfumature anche molto diverse, il tempo
corrode assi portanti della Nazionale di Bearzot, che ora s’avvia alla fase più delicata
dei suoi cinque anni di panchina.
Nel ’75 il suo sembrò un Piano Marshall del calcio azzurro, preso com’era a
ricostruire un nuovo chassis dopo l’eclisse di Valcareggi e dei suoi vecchi; oggi gli
tocca lavorare d’intarsio, a mezza strada tra il vecchio e il nuovo, più riformando che
rivoluzionando, perché questo è il suo istinto.
L’Europeo ’80 di Enzo Bearzot assomiglia a un’improvvisa perdita di corrente. Per
non ridursi nell’82 al lumicino, questa Nazionale deve dimenticare scommesse,
anagrafe, veleni: d’ora in poi dovrà accumulare tutta la modesta energia di un
campionato mediocremente presuntuoso che, a meno di assoluzioni Caf, dovrà per tre
anni fare a meno di Paolo Rossi.
Chi invidia il Ct, alzi la mano.