1980 luglio 21 Gli italiani quinti nella 100 km
1980 luglio 21 – Gli italiani quinti nella 100 km
Oro ai russi mentre Giacomini, Maffei, Minetti e De Pellegrin hanno messo in fila le
squadre dell’Ovest
Dall’inviato
MOSCA – Arriva un russo, Logvin, in preda ad asfissia. Ha i polmoni talmente
compressi dallo sforzo che non riesce più a succhiar dentro ossigeno. Fa parte del
quartetto dell’URSS che, su e giù per l’autostrada alla media di 49 e 438 (record
olimpico), ha vinto la cento chilometri a cronometro. Cento e uno per l’esattezza.
L’Italia è quinta, prima dei Paesi occidentali, un discreto risultato su 23 partecipanti
anche se Gianni Giacomini, mentre si riveste sotto un acquazzone, parla con
malinconia: «Non è andata né bene né male. Noi speravamo nel bronzo e adesso di
occasioni non ne avremo più. Questa è l’ultima cento chilometri che facciamo».
Fosse un «quartetto di stato» come tutti all’est, il bello verrebbe adesso per gli
italiani, finalmente addestrati, allenati, fusi. Ma invece di crescere assieme e
perfezionarsi, si stanno smembrando, ognuno per la sua strada: Giacomini, campione
del mondo, cachet sul mezzo milione per ogni corsa, passerà al professionismo,
probabilmente con la friulana San Giacomo. Gli altri chissà, cercano contratto. Su
questo quinto posto non si potrà costruirci sopra nulla.
Giacomini, Maffei, Minetti, De Pellegrin erano arrivati un’ora prima del via, di buon
mattino per riscaldarsi, in un paradossale paesaggio di betulle e soldati. Per chilometri
e chilometri, soldatini scamiciolati in giallo senape hanno fatto da transenne, uno ogni
venti metri al centro della strada, altrettanti dentro il bosco, in fila come piante, quasi
fossero cresciuti da una semina di pallottole, in un quadro surrealista.
Non c’era pubblico, c’erano loro, appartenenti a un’armata di tre milioni e mezzo di
arruolati.
Giacomini, trevigiano, ha il fisico più equilibrato. Maffei è un biondone toscano.
Minetti piemontese, operaio alla Fiat. De Pellegrin emiliano scuro e tarchiato, i cui
nonni emigrarono da Belluno. Qualche attimo prima della partenza (sono i
quindicesimi nell’ordine), il massaggiatore li libera dal sudore dell’allenamento con
una frizione di colonia. Tira vento, il cielo è scuro, non fanno più di 13-14 gradi. Nudi
di tutto, infilano la leggerissima tuta, una piuma acrilica, in mistoseta. Non hanno il
casco dei russi: soltanto una protezione sotto la cuffietta. Uno palpa la catena, che
vale da sola centomila lire.
Lo starter dice via, e loro si giocano in 101 chilometri dieci mesi di preparazione. Tra
ritiri e trasferte, sono costati alla federazione dieci milioni a testa, oltre a uno
stipendio di trecentomila lire al mese. Hanno fatto test medici a Roma: hanno
sostenuto lunghi raduni a Madonna di Campiglio e Santa Marinella. E arrivano a
Mosca dopo 40 giorni di college a Gorizia da dove, portandosi a testa bassa sulla
panoramica di Trieste, hanno spesso provato a conoscere e vincere il vento, lo stesso
dell’autostrada Mosca-Minsk.
Spinge contro nella prima parte, soffia a favore nella seconda. Maffei è il più
cronoman dei quattro, ma i cambi sono distribuiti alla pari, ogni 150 metri. Renzo
Zennaro, vice-presidente della federazione, ha lasciato la farmacia di Farra di Soligo e
guarda dalla tribuna: «Hanno lavorato molto e bene, spero nel quarto posto».
Edy Gregori, il tecnico triestino, assiste il quartetto dal camioncino, alle loro spalle.
Conta sugli effetti del programma atletico e sull’amicizia: «Al Giro del Lussemburgo
– mi aveva confidato poco prima – Maffei forò e fu Giacomini, campione del mondo, a
passargli la ruota. I buoni quartetti nascono anche da questo».
Sono sesti ai 25,50 e 75 chilometri. Possono peggiorare?, chiedo al medico. «No,
sono tutti a posto fisicamente, e questo è più o meno il clima che avevamo nelle
ultime settimane in Italia»: Giuseppe Solda, medico all’ospedale di Padova, 30 anni,
stima moltissimo Giacomini. Di lui dice che è furbo, sveglio e che «se passerà tra i
professionisti, o sarà un leader o smetterà. Non è il tipo da fare il gregario». Negli
ultimi 25 chilometri l’Italia va forte. Fa meglio della Bulgaria, meglio della Polonia, è
quinta alla media di 48 e 153. «L’unica soddisfazione – mormora De Pellegrin – è che
siamo i primi dell’ovest». Si può essere bravi a perdere: si può essere diversi in
strutture sportive senza soffrire complessi atletici. Il ciclismo italiano è sport di
solisti, non di quartetti.
Betulle, soldati e pioggia vedono scemare a Mosca una specialità nata in Italia nel ’60
diventata impossibile nell’80. Questi quattro nomi non li leggeremo più insieme. Si
riparte da zero.
Giacomini: «Potremmo battere l’Est ma non correremo più insieme»
Dall’inviato
MOSCA – Siete cresciuti nel finale, gli dico per rompere un velo
d’insoddisfazione: «Noi – risponde Giacomini subito dopo la cento chilometri –
abbiamo sempre dato tutto. Sono calati gli altri».
– Ha influito il vento?
«Un bel po’. Basta guardare i tempi tra i primi 50 chilometri e i 50 del ritorno».
– Deluso?
«Noi puntavamo al bronzo, ma c’è chi sta peggio: i cecoslovacchi hanno perso
l’argento per sette decimi di secondo dai tedeschi».
– Un quinto posto come base per l’avvenire non sarebbe male, ma qui il vostro
quartetto chiude.
«Fossimo all’Est, resteremmo dilettanti tutta la vita e allora… Ci consola vedere
che tutti i paesi occidentali sono dietro a noi».
– Diventerai professionista, assieme a Maffei. Ma con chi?
«Devo definire bene la cosa con Bartolozzi».
– C’e la Sanson.
«No, sembra addirittura che si sciolga».
– Allora?
«Forse la San Giacomo, ma c’è anche un’altra possibilità».
– Fra una settimana ti toccherà la prova su strada…
«Avrei preferito correrla tra due-tre giorni».
– Ma non devi smaltire la fatica della cento?
«Siamo ben allenati, fisicamente sto bene non ho nessun problema di recupero.
Nelle gambe ci stanno benissimo i due appuntamenti. I problemi sono altri».
– Quali?
«Qui l’Est gioca in casa, difficile batterli. E poi, con tanta gente in corsa, con
certe strette in curva che ho visto nel percorso, puoi finir fuori anche dopo due
chilometri».
Aspettiamo lunedì.