1980 luglio 22 Oliva un Clay alla napoletana

1980 luglio 22 – Oliva, un Clay alla napoletana
È verboso, arcisicuro di sé ma ha una gran classe: è certo di valere una medaglia

Dall’inviato
MOSCA – É il più napoletano del Vesuvio ed è facile di lingua come Cassius Clay.
I due pugili che vorrebbe scopiazzare sono Leonard e Benvenuti. Ha 21 anni
Patrizio Oliva e ieri è salito sul suo primo ring olimpico, pesando 68 chili e 8 etti,
tra i super-leggeri.
Gli si è fatto incontro un tale Aureliano Agnan, della Repubblica Popolare del
Benin, che sarebbe il Dahomey. Brutto come il buio, fisico del tipo siccità,
Aureliano se la faceva sotto, il paradenti che gli tremolava in bocca pronto a volare
al primo sganassone.
Oliva è bello a vedersi, equilibrato. Boxa di tecnica, con la specialità del diretto
destro del gancio sinistro su attacco dell’avversario. Deve crescere in esperienza e
farsi ancora più veloce, ma Nino Benvenuti assicura che è l’unico vero pugile
rimasto all’Italia, il cui ring è oramai una lapide.
Pur non sapendo queste cose, Aureliano Agnan del Dahomey mangia subito la
foglia e scappa. Di fronte a tanta vigliaccheria, l’arbitro russo rammenta che il
compagno Zagladine, membro del comitato centrale del Partito comunista, ha detto
che, nonostante gli assenti, «i Giochi di Mosca saranno dei giochi al cento per
cento». Dopo due minuti e quindici secondi, l’arbitro riconsegna per pudore il
negro all’Africa e solleva il braccio di Oliva.
Oliva ha sudato più nel pre-riscaldamento che sul ring; il formidabile risparmio è
una pacchia visto che chi cerca l’oro o l’argento deve battersi cinque volte in
tredici giorni. Uscire dal primo match senza un graffio e senza fatica, per manifesta
inferiorità dell’avversario, è stato per Oliva una bellezza, come sbafarsi ‘a
pummarola a Mergellina.
Gli dico: – Al prossimo turno ti toccherà il siriano Halabi, un tarchiatello.
«Chillo sta facile», risponde Oliva, la parlata stretta e tumultuosa, i capelli ricci e
fitti delle pecore merinos. La fronte è molto bassa perché il manto gli cresce fin
sopra le tempie, mettendo ancora più a fuoco l’espressione assai viva, verace.
Gli ripeto: – Al terzo turno, avrai contro lo jugoslavo Rusevski, attaccabrighe della
malora.
«Chillo una battaglia con me non la farà. Lui cerca la rissa, lo conosco da molti
anni: io lo spaventerò di gambe, per non farlo avvicinare. E poi sta già scassato!».
Ace Rusevski, vincitore degli ultimi Giochi del mediterraneo, è uscito ieri fischiato
e scorticato da una carneficina con il bulgaro Anastassov. Si sono unghiati come
orsi, perdendo più sangue che per una trasfusione. Non sembrava una eliminatoria
di boxe, ma un incontro per decidere l’attribuzione della Macedonia, zona delicata
tra Jugoslavia e Bulgaria.
Sono andato a trovare Rusevski mezz’ora dopo il match. Stava seduto su un
gradino fuori del bellissimo stadio olimpico indoor: sul viso gli era passata una
grattugia; l’occhio destro era una prugna. «Sta già scassato!», aveva concluso
Oliva, con opportuno cinismo, pensando che gli basterà battere il modesto siriano e
lo slavo blu per andare in semifinale, cioè al bronzo sicuro, dato che nel pugilato ci
sono un oro, un argento e due bronzi.
Quando vedo bastonature come quella tra Rusevski e Anastassov, odio la boxe. Il
bello del ring sono la finta, la parata, la danza, il colpo calibrato. «Io voglio
boxare, non fare a botte», dice Oliva. Fare a botte è violenza, non noble art e forse
molti giovani non si avvicinano più a questo sport perché non hanno più voglia di

sentir trattata la testa come un sacco di segatura.
Il bello della boxe sono gli Oliva, che ha il gusto istintivo della scherma, il braccio
come un fioretto. Il bello della boxe non è il passetto di Rusevski che, ad ogni
colpo inferto all’avversario, digrigna come il labbro di un dobermann. Il bello
della boxe è la materia cerebrale non sballottata ai quattro cantoni del cranio,
tenuta assieme dalle risorse della classe. La differenza tra il suonato e il lucido.
É gasato Oliva, si stima molto, è anche simpatico. A Napoli è impiegato alla
Banca di Calabria, all’Ufficio corrispondenza. Non possiede diplomi, anche se lo
sento rispondere in francese disinvolto all’intervista di un russo. Ha imparato i
pugni dal fratello, che è stato pure campione italiano.
– E adesso, che cosa chiedi al pugilato?
Replica dritto che pare aver innestato la segreteria telefonica: «Voglio diventare
campione olimpico e fare il professionista al massimo livello». Un programmino
da mettere paura, per quanto si dica che i giovani d’oggi sanno a volte guardarsi
dentro con gelido distacco.
L’anno scorso, ha rischiato molto per la perforazione del timpano destro.
L’orecchio è un organo dell’equilibrio, oltre che dell’udito, per un pugile conta
molto. Oliva restò a lungo a riposo, subì frequenti controlli e «non ha postumi»,
garantisce il suo tecnico, Franco Falcinelli.
É da dicembre che si prepara e non rammenta quante riprese ha nei guantoni,
anche perché, nella boxe moderna, il ring è soltanto il terminal di un lavoro
stravolgente, in palestra, ai pesi, con carichi di lavoro da servi della gleba. «Una
durezza – raccomanda Falcinelli – che meriterebbe di essere rivalutata. Una
durezza che molti altri sport non vantano».
Patrizio Oliva prende il braccio del suo tecnico e torna al villaggio a mettere
qualcosa sotto i denti, lui che deve badare agli etti per restare in margini prudenti
di peso. Sull’altro marciapiede, sale nel bus un negro di nome Odhiambo, la faccia
di mansueto King-Kong e la maglia giallo-azzurra con la scritta «Svezia»!
Tre anni fa, ha lasciato l’Uganda di Idi Amin e si è trasferito in Svezia, dove basta
lavorare un annetto per ottenere la stessa cittadinanza di Björn Borg e di Ingrid
Bergman. Donato Martucci, aristocratico addetto stampa del Coni, lo squadra e
mormora, reggendo il bocchino in osso bianco: «Non c’è più religione, qui se ne
vedono di tutti i colori».
Odhiambo non lo sente, anche se parla ugandese, francese e inglese. Dopo aver
battuto un polacco, sta forse pensando alla sua biondissima ragazza scandinava
che lo aspetta a Göteborg. Sposato? Chiede un giornalista italiano di matrimonio
concordatario.
«No, ma è lo stesso», risponde pigramente.
Odhiambo tira pugni ugandesi, ma è davvero svedese.