1980 Olimpiade di Mosca. I moscoviti
1980 – Olimpiade di Mosca – I moscoviti
I moscoviti sono due: quello che è andato allo stadio e l’altro che è rimasto a casa. In tredici giorni di
gare, gli spettatori sono stati quattro milioni e mezzo.
Come spettatore, il sovietico ha deluso, e la cosa sconcerta il doppio perché,dopo il boycott, ci si
aspettava il massimo sforzo per riparare alle toppe olimpiche con un’atmosfera internazionalista. Che,
tradotta in lingua borghese, sarebbe il fair play.
Il pubblico ha disturbato parecchie gare, nel tentativo di dare una mano ai suoi atleti. Un atteggiamento
che ha raggiunto il diapason nel salto con l’asta, senza dubbio il più spettacolare momento di Mosca
’80. Il polacco “Kosa” e il francese Houvion hanno reagito ai fischi con quello che i francesi chiamano
“bras d’honeur” universale gesto del braccio che l’irrisione romanesca in genere accompagna con
l’esclamativo “tiè, beccate questo!”. Strano ma vero, il boicottaggio ha caricato i sovietici di
un’asfissiante responsabilità, obbligandoli a stravincere: in assenza di americani e tedeschi, di
giapponesi e canadesi, stravincere era l’unico modo di non perdere. Il pubblico ha preso qualche
sconfitta come una colpa, riservando ad alcuni atleti sovietici prima una pressione morbosa, poi un
crudele trattamento. Come quando ha sonoramente fischiato la precoce eliminazione di Faina Melik,
l’ucraina lanciatrice del disco, campionessa mondiale, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Monaco,
colpevole ormai di avere oramai 35 anni. Un congedo più immemore non poteva ottenere chi allo sport
sovietico ha dato molto.
Tutto il mondo è paese. Il nazionalismo non rispetta i blocchi, è di destra e di sinistra, ottimizza i popoli
in via di sviluppo e sprigiona dell’inconscio dei Paesi industrializzati. Quando, alle olimpiadi invernali
di Lake Placid, gli Usa superarono l’Urss nell’iroso tumulto della partita di hockey, l’America saltò in
piedi come se avesse piantato una seconda bandiera sull’isola di Iwojima.
L’operaio Stakanov, eroe sovietico della super produzione, è un mito nazionalista. La seconda guerra
mondiale, così sperduta nell’oblio dell’Occidente, è qui ancora vivissima, quasi fossero passati soltanto
quindici anni non più del doppio.
Con i suoi venti milioni di morti e l’appello alla “Patria russa”, la guerra non è un’emozione archiviata
e spesso mi è capitato di incontrare anziani reduci a spasso per Mosca con decorazioni al petto.
A guardar bene, è abbastanza coerente che all’Olimpiade di Mosca non abbia retto la retorica dello
“sportivi di tutto il mondo unitevi”. Prima l’ha sfregiata l’Afghanistan; poi l’hanno ripudiata gli
spettatori. Mai come il vincere prevale sul partecipare, il paese sull’atletica, il messaggio sull’exploit.
Fra un anno sarà questo il problema numero uno al vertice olimpico Baden Baden, che avrà all’ordine
del giorno la proposta di rinunciare agli inni e alle bandiere.
Non potendo sbarazzarsi del nazionalismo, l’Olimpiade ne ammalia almeno i simboli. Quando non si
riesce a fare storia, si fa politica. Fingendo