1982 luglio 12 Campioni: 3 volte; vice: 1 volta
1982 luglio 12 – Campioni: 3 volte; vice: 1 volta
La storia riassunta delle finali azzurreprima della grande vittoria di Madrid
1970
Luigi Riva: camiseta n. 11, mancino dalla nascita: quei suoi gol sibilanti, come
proiettili, palloni gonfi di riscatto personale, il collo del piede per vivere
Avevamo anche noi un Rummenigge, con la sola differenza che era nato in
Lombardia, non in Westfalia. Luigi Riva, camiseta n. 11, mancino dalla nascita,
un’infanzia molto difficile, presto senza genitori. Quei suoi gol sibilanti come
proiettili, palloni gonfi di riscatto personale, il collo del piede per vivere.
«Rombo di tuono» lo chiamava Gianni Brera. Altri «samurai», «bomber», «nuovo
Piola». Era il terminal ideale del contropiede all’italiana, basato su una difesa serrata
e su lunghi rilanci, che Riva chiamava a sé, difendeva di gomito nell’attesa di
assestare il sinistro o il «cabezazo», violento colpo di testa.
Era stato Gigirriva, come lo pronunciava Andrea Arrica alla sarda, a mandare l’Italia
al Mundial 1970 di Città del Messico. Nelle qualificazioni, contro Galles e Germania
Est, aveva segnato sette volte in quattro partite! Sette gol da solo su un totale di dieci.
Giocatore determinante, aveva dato lo scudetto al Cagliari, proprio quell’anno. Diceva
Manlio Scopigno: «Basta costruire la squadra su di lui. Al resto provvede da solo».
Quasi ci riuscì G. B. Fabbri, con un altro uomo-squadra, Paolo Rossi, nel 1978 a
Vicenza, secondo a ruota della Juve.
Mexico doveva essere soprattutto il Mundial di Riva, invece lo fu soltanto in parte.
Come Rossi a Vigo, ma per altre ragioni, Riva fu molto in ombra nel primo turno,
senza nemmeno un gol, senza scatti «ricchi di avventura». Forse l’altitudine, forse la
preoccupazione di un problematico amore lasciato in Sardegna sotto gli sguardi
morbosi dei rotocalchi.
E forse una Nazionale che non era più fatta tutta su sua misura. Lui preferiva Gianni
Rivera, i suoi lanci diagonali, magari solo quelli, 3-4 appena a partita, ma lanci tra i
meglio confezionati nel calcio di tutti i tempi.
Allora avevamo molto più pudore di oggi. Allora pubblico, tecnici e critica si
spaccavano per l’alternativa tra Mazzola e Rivera, non per Beccalossi, Pruzzo o
addirittura Massaro! Riva prediligeva Rivera; il resto della squadra Mazzola, perché
Mazzola lottava di più, tornava a centrocampo, era più continuo, faceva più gruppo.
Mazzola aveva il dribbling e la trama, non il lancio calibrato; era un giocatore più
tattico, più collettivo. Rivera era la catapulta di Riva, il più lussuoso dei cervelli-
camerieri. Due campioni, assai diversi tra loro.
Valcareggi e il suo supervisore, Walter Mandelli, uomo eccezionale, oggi alla guida
dell’industria metalmeccanica italiana, optarono per il ruolo-tattico di Mazzola, in
«staffetta» con Rivera.
Ai quarti di finale con il Messico, entrato Rivera nel secondo tempo, Riva segnò di
colpo due volte, al 64’ e al 76’! L’Italia passava alla semifinale con la Germania, il 17
giugno 1970. Da allora, sarebbe stata ricordata come la data del «partido do siclo», la
partita del secolo, 4-3 ai panzer dopo 120’ di gioco. Una data rivissuta ieri sera,
dodici anni dopo, qui a Madrid.
Quel giorno Boninsegna andò prestissimo in gol, dopo sette minuti, provocando due
fenomeni paralleli: la Germania sempre più in forcing, l’Italia sempre più in bunker.
Sotto gli occhi di un tollerante arbitro, Bertini piantò il tackle sui piedi di kaiser
Beckenbauer in piena area, senza farsi punire con il rigore e anzi ottenendo la
slogatura della spalla dell’asso tedesco, costretto a giocare oltre metà partita con il
braccio destro fasciatissimo al petto.
Palle-gol alla mano, alla fine dell’ora e mezza regolamentare poteva essere 10-0 per i
tedeschi. L’Italia era alle corde, loro bombardavano con Seeler, Gert Müller, Overath,
Pareggiarono al 92’, in pieno ricupero, quando Schnellingwer, il deutsch del Milan,
mise dentro in spaccata un cross di Grabowski.
Qualche giorno più tardi, Schnellinger ci rivelò di essersi trovato all’appuntamento-
gol soltanto perché, a tempo scaduto, si era ormai avvicinato all’uscita del campo! La
porta dello spogliatoio stava dalla parte dell’area italiana; si trovò all’appuntamento
magico per mera combinazione.
Non fu la partita del secolo; furono i supplementari del secolo. Al gol di Schnellinger
piovvero in tribuna-stampa, nel settore degli inviati italiani, barattoli di Coca-cola,
palle di carta, urla e schiamazzi da impedirci qualsiasi tentativo di telefonare al
giornale. I messicani tifavano Germania per due umanissime ragioni: l’Italia aveva
eliminato il Messico nei quarti di finale; l’Italia aveva opposto ai tedeschi il più avaro
dei catenacci.
I supplementari furono l’elogio di una indimenticabile pazzia. Ettore Puricelli perse la
voce in tribuna; io avevo fatto posto a Omar Sivori nel mio box. Ad ogni gol erano
baci e abbracci, moccoli, sconforti, un elettrocardiogramma di colpi al cuore dentro
uno stadio favoloso, di centomila e passa, una San Siro moltiplicata.
Segnò Müller, è fatta, tememmo, i panzer hanno più resistenza, l’Italia degli spaghetti
avrebbe più reagito? Ci pensò Tarcisio Burgnich, la roccia, friulano di Ruda. Mise
dentro un impossibile 2-2, lui che non segnava mai, e andò in gol di sinistro, il suo
piede assolutamente sbagliato. La Germania non credeva ai propri occhi, si sentivano
«traditi» peggio dell’8 settembre! Gigi Riva colse lo smarrimento dei panzer e infilò il
3-2. Nel giro di nove minuti, l’Italia pareggiava, perdeva, vinceva.
Secondo tempo supplementare, l’immenso Müller, agile, potente, antenne da puma,
fece il 3-3. Con Rivera intontito, che lascia passare il pallone in uno spiraglio largo
una spanna, tra il suo fianco sinistro e il palo. Bastava una mossetta di chiappe e non
sarebbe passato.
Gli assi si vedono anche qui, nel decantare i mea culpa in vendicative penitenze.
Gianni Rivera, discusso genio, scattò pochi secondi dopo da centravanti e, nel
raccogliere di piatto destro un cross da sinistra, mirò al portiere, Sepp Maier, uno
della razza degli Zoff. Lo mirò tanto bene che il tedesco credette a una finta e fu
centralmente trafitto. Era il minuto 110, la partita del secolo chiudeva i battenti sul 4-
3.
Le ossa di Rivera scricchiolavano a terra sotto un mucchio di gente sudata. Alla sera,
nel ritiro italiano, al Parco dei Principi, una molto chic ex-casa di tolleranza, fu
baraonda fino a notte fonda, come se la finale fosse stata quella, non, ahimè, Brasile –
Italia di tre giorni dopo.
Strinsi la mano a Rivera, gli feci i complimenti per lo storico destro. Incredibilmente
mi corresse: era convinto di aver segnato di sinistro, tanta era l’ebbrezza del
momento. Scommisi con lui un brindisi e più tardi si corresse: chiudendo gli occhi,
aveva rivisto il piede giusto.
Fuori, Ciudad de Mexico era un amore notturno. I ristoranti della zona rosa, le
immense strade, l’aria fine. Ci saremmo portati via un ricordo mai più cancellato, fino
alle 20 di ieri sera.
Città di Messico, 21 giugno 1970
Brasile -Italia 4 – 1
MARCATORI: 18′ Pelé, 37′ Boninsegna, 66′ Gerson, 71′ Jairzinho, 86′ Carlos
Alberto.
BRASILE: Felix, Carlos Alberto, Everaldo, Brito, Piazza, Clodoaldo, Jairzinho,
Gerson, Tostao, Pelé, Rivelino.
ITALIA: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini (Juliano dal 47′), Rosato, Cera,
Domenghini, Mazzola, Boninsegna (Rivera dall’84’), De Sisti, Riva.
ARBITRO: Gloeckner (Germania Est).
1934 «Al diavolo l’estetica – dirà Pozzo – il nostro calcio è pratico in sommo grado:
primo, non prenderle…»
Alla finale di Roma si è qualificata, con l’Italia, la Cecoslovacchia, che aveva esordito
eliminando la Romania a Trieste e aveva superato gli ottavi battendo la Svizzera 3 a 2
a Torino. In semifinale, i cechi hanno incontrato la Germania a Roma e le hanno
rifilato 3 gol (a 1).
Per l’incontro decisivo, in programma il 10 giugno, Vittorio Pozzo riconferma la
squadra di Milano (Italia – Austria 1-0, n.d.r.). I cechi scendono in campo con
Planicka; Zenisek; Ctyroky; Kostalek; Cambal; Krcil; Junek; Svoboda; Sobotka;
Nejedly; Puc.
Il ducione ha promesso di assistere alla finale e si fa acquistare un biglietto per dare il
buon esempio in quella che poteva e può definirsi, a ragione, la seconda capitale dei
portoghesi. L’incontro è accanito e deludente in misura diretta all’agonismo. Il primo
tackle operato da Monti si spegne sinistramente su una caviglia di Svoboda, che è il
regista degli avversari. Svoboda è costretto a spostarsi, menomato, sull’ala. La nemesi
punisce immancabilmente gli italiani, colpevoli di tanto determinismo, e l’anziano
Puc riesce a infilare Combi con un diagonale carico di diabolici effetti (26’ del
secondo tempo). Lo stadio è gremito di fervidi patrioti, non proprio di sportivi. Il
silenzio è greve. I soli a farsi sentire sono i mille e mille cechi venuti a Roma con tutti
i mezzi.
Sulla’1 a 0 coglie un palo Svoboda con la caviglia buona. Il brivido viene
disinvoltamente assorbito per una improvvisa esplosione di Orsi: ricevuta la palla,
scarta Kostalek, il suo mediano, e prevenendo l’incontro dei terzini scarica un destro
da fuori che annichilisce letteralmente Planicka. É il 36’. Null’altro avviene, prima dei
tempi supplementari.
Le due squadre si abbandonano ai massaggiatori. Appaiono quasi stremate. Pozzo
decide di spostare Schiavio sull’ala destra e di affidare al più giovane Guaita la guida
dell’attacco. La decisione si rivelerà determinante. Al 5’ del primo tempo
supplementare, Guaita appoggia verso destra quando tutta la difesa avversaria si
aspettava la solita insistita apertura a sinistra: sulla palla invitante di Guaita arriva
Schiavio ingobbito dalla voglia: il suo destro è una vera e propria esecuzione.
Planicka vola per deviare ma ricade affranto. Lo stadio esplode. L’ossuto e generoso
Anzolèn Schiavio si abbandona svenuto per l’emozione. Gettandosi su di lui per le
comprensibili effusioni, i compagni rischiano di soffocarlo.
Sul 2 a 1 si chiude la finale del secondo campionato mondiale per la Coppa Rimet,
destinata al Paese che la vinca tre volte, anche non consecutive. Gli azzurri ricevono
premi ingenti. I cechi si dicono derubati e Praga gli decreta ugualmente il trionfo. I
commenti tecnici sono quasi tutti malevoli. Evidentemente, l’Italia è andata oltre
qualche limite nell’avventarsi a cogliere il suo primo titolo mondiale. Gli eccessi
agonistici consumati contro la Spagna e l’Austria sono vivi nella memoria di tutti. La
stessa finale non ha premiato la squadra del gioco più elegante.
«Al diavolo l’estetica! risponderà Pozzo per tutti: il nostro calcio è pratico in
sommo grado: e per vincere basta segnare un gol più degli avversari; o prenderne
uno in meno, che poi è lo stesso.
Gianni Brera (da Storia critica del calcio italiano, ed. Bompiani)