1982 luglio 13 Ha lavorato con spirito artigiano
1982 luglio 13 – Ha lavorato con spirito artigiano
I PERCHÉ DELL’ITALIA MONDIALE di Giorgio Lago
Dall’inviato
MADRID – Marco Tardelli si sfilò la maglia numero 14 donandola a Titti D’Attoma,
figlia ventenne del presidente del Perugia, che gli restituì un bacio con i lucciconi.
Paolo Rossi stringeva tra le braccia chiunque gli arrivasse a tiro. É difficile
fotografare le atmosfere e quella di Madrid, domenica sera, era un getto di vapore.
Bruno Conti, «el enenito», il nano fantasista di Bearzot ,piangeva come un bambino.
Uno dei primi giorni di Vigo si era inserito all’ala destra di un presunto attacco-ideale,
assieme ai Maradona, Zico, Rummenigge, Boniek. La mattina seguente per telefono
la moglie lo aveva affettuosamente rimproverato dopo aver letto a Roma i giornali: «a
Brù – gli disse Laura – n’te sta largo n’po’ troppo?», Bruno non ti stai gonfiando un
po’ troppo?
No, «el enanito» non si era allargato troppo, anzi è stato lui, assieme a Rossi, a
lanciare la bellissima nuova coppia del calcio mondiale. Conti-Rossi, media d’altezza,
un metro e 71 centimetri.
Da qualunque parte si guardi l’Italia tricampione è tutta una lieta sorpresa. E allora è
possibile, a bocce appena ferme, chiedersi perché? Domanda obbligatoria, la più
semplice e la più urgente. Perché il Mundial tutto azzurro?
La nazionale non era partita da zero, ma quasi; i bookmaker la quotavano al via 40 a
1, come dire che la sua vittoria era giudicata più distante di un terno al lotto. Negli
ultimi anni veniva dal calcio scommesse, dagli opachi europei di Roma,
dall’importazione degli stranieri, dalla morte sportiva di Paolo Rossi, dalla perdita del
leader Bettega, da una qualificazione mondiale ad alti e bassi, da amichevoli fuori
forma.
Gli indizi avevano incattivito le attese, Vigo compresa. Espressione e insieme pilota
del pubblico, gran parte della critica aveva omesso ogni cautela scordando
l’imponderabile del football e soprattutto l’imprevedibilità della nostra nazionale.
Una cautela che, se non dettata da convinzione, si legittimerebbe perlomeno con
l’esperienza o, usando una parola meno lussuosa, con il «mestiere». Nel 1966 in
Inghilterra e nel 1974 in Germania eravamo andati con le coccarde spiegate,
attendendoci buoni risultati dalla generazione dei cosiddetti abatini o più tardi dal
samurai Gigi Riva. Finì come tutti ricorderete, con la Corea e con la Polonia, due
brusche eliminazioni, fra l’altro coperte di ridicolo.
Guardandola in allenamento, l’allora vice di Edmondo Fabbri, il buon Valcareggi,
definì la Corea «una squadra di Ridolini». Nel 1974 in Germania accadde poi di
peggio; all’Italia serviva un pareggio con la Polonia per passare il turno e si
avvertirono nell’aria strani movimenti, troppi convenevoli nei giorni precedenti la
partita. Alla fine del Mondiale, i polacchi non ci misero nemmeno due minuti a
raccontare in giro che anonimi emissari avevano tentato di aggiustare il risultato
secondo convenienza. Invano, naturalmente.
Italia 1982, per fortuna altra atmosfera, senza barzellette né voci di corridoio. Ma non
è di questo che ci stavamo occupando: torniamo al nocciolo. Cioè, questa nazionale
non la devi a priori mai sottovalutare né sopravvalutare. É sempre consigliabile
guardarla senza pregiudizio, leggerla tra le pieghe, attenderla alla prova vera, non in
amichevole. Dubitarne insomma quando sembra in salute, concederle l’appello
quando pare spacciata.
Letti i precedenti negativi, ricordiamo anche quelli positivi, che confortano la nostra
tesi. Il 1970 in Messico, quando arrivò in finalissima nonostante a Toluca e Puebla
avesse raccolto fischi e zero a zero. Quanto all’Argentina, ultimo precedente, la
memoria è freschissima, quarto dignitoso posto, buon gioco e persino qualche
rimpianto: tutto ciò dopo una partenza da Roma che aveva ispirato titoli come
«Meglio restare a casa».
Nei riguardi della nazionale di Bearzot è mancata, prima di Vigo e a Vigo, la virtù
della prudenza. Tutto è stato interpretato in chiave drasticamente negativa. La
stroncatura ha sostituito la critica; il dialogo ha preso il posto del dissenso. L’insulto
di «scimmione bastardo» gridato dalla isterica ragazzina di Roma a Bearzot, e molto
equamente sanzionato dal Ct con una ossuta carezza…, è stato in fondo la colonna
sonora di un ambiente che aveva perso il contatto con la realtà. Non esaltante, ma
nemmeno vergognosa era la nazionale. Fu pensato e scritto invece che questa
nazionale era una vergogna.
«Prenderei i giocatori a calci nel sedere» disse il presidente della Lega! Gli eccessi,
soprattutto quelli, hanno fatto diventare la nazionale la sorpresa delle sorprese, il tetto
dell’inatteso, l’Everest dell’anti-pronostico.
Nel clan azzurro c’è stato un ottimista e un veggente. Gentile parlò a Vigo di quarto
posto, il portiere di riserva Galli, spilungone di evidenti doti medianiche, disse
testualmente al raduno di Alassio: «Finale con la Germania, Italia campione!». Era
una profezia tanto fuori dal tempo che nessuno ci fece caso. Giovanni Galli, pisano,
24enne portiere della Fiorentina, fu il solo dei 57 milioni di italiani a pigliarci in
pieno. Nemmeno Bearzot arrivò a tanto.
Perché allora Italia campione? Perché ha lavorato con spirito artigiano, guidata da un
uomo fuori moda, un uomo di fede, uno che crede a tutto quanto fa e a qualcosa di
più, mancando di diplomazia non di cultura, uomo di liceo classico e di sicura dignità,
che sbaglia sempre in buona coscienza, dicendo del calcio «è la mia vita». Enzo
Bearzot è stato decisivo nel fare clan, gruppo di 15 giocatori chiuso in se stesso per
battere le proprie insicurezze e soprattutto gli altrui scetticismi.
«É stato un Mondiale psicologico», lo ha definito Facchetti. La chiave psicologica di
questa Italia era giocare «contro»: battere, attraverso l’avversario di turno, un
fantasma di tante rabbie.
Ma non si vince di sola psicologia. L’Italia ha sfruttato l’atlantica frescura di Vigo,
benefica anche con la Polonia, terza. Ha trovato un pubblico molto ospitale. Grandi
avversari quali Argentina, Brasile, Polonia e Germania l’hanno ispirata al massimo
della concentrazione e degli stimoli.
Psicologia, ambiente e, non ultimo, il gioco! Sissignori, il gioco, questa è la vera
novità dell’Italia campione. La difesa ha giocato ai livelli argentini, con uno Zoff
migliore: era – lo andiamo ripetendo da sempre – una difesa mondiale già prima del
Mundial. Alla difesa di Vigo, Barcellona ha fatto l’incommensurabile dono della
seconda nascita di Paolo Rossi. Da solo, ha segnato il 50 per cento dei gol azzurri: sei
su dodici.
É lui, più ancora che in Argentina, il match-winner, «el hombre del partido», la
differenza che decide. Non altri; un collettivo più Rossi che, attenzione, è giocatore
istintivamente da collettivo. Ha deciso molte cose lui mentre al giocatore più
sfortunato d’Italia, Giancarlo Antognoni, è incredibilmente toccato il destino di
giocare tra semifinale e finale soltanto 24 minuti!
Anche questa doppia assenza di Antognoni con la Polonia e con la Germania ha
lasciato su questo Mundial, ancora più forte, l’impronta di Rossi, e di Bruno Conti.
Rossi e Conti, brasiliani d’Italia.
Perché Italia mondiale dunque? Tante cose sono andate in sintonia su una base di
maturità (28 anni e passa di età media), di nerbo e di condizione fisica.
A un «perché mondiale?» Non c’è mai una sola risposta. E del resto, la vita ci offre
forse spiegazioni dogmatiche, a senso unico? Mai…