1982 luglio 13 I colpi del campione, non catenaccio
1982 luglio 13 – I colpi del campione, non catenaccio
I PERCHÉ DELL’ITALIA MONDIALE di Giorgio Lago
Dall’inviato
MADRID – Ma insomma con l’Italia ha vinto il catenaccio o no? Le opinioni sono
molte e confuse. La nostra arriva alla conclusione di alcuni fatti.
In sette partite, l’Italia ha segnato 12 volte, con Rossi (6), Tardelli (2), Conti,
Graziani, Cabrini e Altobelli. Prima dell’esplosione di Rossi, la squadra era obbligata
a sostituirsi a Pablito mandando a rete chiunque. Bearzot va molto orgoglioso del
fatto che tutti i titolari della sua gestione hanno prima o poi segnato. Gli manca
soltanto Zoff: se un giorno, prima di andare in pensione, gli facessero battere un
rigore, anche tale lacuna sarebbe colmata.
L’Italia ha segnato 12 volte in sette partite mondiali, con una buona media,
risicatissima a Vigo, ottima da Barcellona in poi. Lo ha fatto in un Mondiale che ha
visto 146 reti in 52 match, media partita di 2,8. Il che migliora la media dei Mondiali
sia d’Argentina (2,6) sia di Germania (2,5). In generale e in particolare non si può
dunque parlare di gol con il contagocce: tirate le somme finali di Spagna, sostenere
questo equivale ad un luogo comune.
I gol sono la produzione del gioco, e il gioco dell’Italia fa suonare tutti i violini,
compresi gli stonati. Bearzot non ama il catenaccio; vuole che la sua Nazionale
marchi in difesa e, conquistato pallone, ribalti l’iniziativa. Il che non è palla avanti e
pedalare, ma tutt’altra cosa, più ariosa.
Nel suo significato preistorico, diffamatorio soprattutto in bocca ai francesi, il
catenaccio è il gioco passivo elevato a dottrina. É la cultura del primo non prenderle,
dello zero a zero che riesce a ispirare chissà quali solitarie godurie. É il bunker, gli
uomini piantati in area di rigore.
Questa Nazionale non fa catenaccio in senso classico, anche perché i suoi difensori
non sono tutti dei Burgnich o dei Picchi d’altri tempi. Soltanto Gentile marca alla
Burgnich, ma lui stesso se la cava a metà campo o lungo i corridoi con disinvoltura
pressoché sconosciuta al grande Tarcisio degli Ann ’60.
Questa Nazionale ha poi un libero quale Scirea, che immagina il gioco con la
psicologia della mezz’ala. Ha segnato con la Juve cinque volte quest’anno, tanto per
dirne una. Gli stessi Cabrini, Collovati, non son gente di solo porfido; hanno bisogno
di distendersi nella marcatura. Cabrini, poi, se lo fai andare, è un mediano laterale,
molto meno potente, ma molto più battente del tedesco Kaltz.
Bearzot non dispone di truci difensori. Non ha più nemmeno un Benetti e non ha mai
chiamato un Furino. Ha trovato il giovanissimo Bergomi, marcatore di rara precisone.
Bearzot, questo sì, costruisce la sua partita sulle marcature, gli manca Antognoni in
finale e opta per Bergomi: è un tattico carico di «buon senso», la qualità che secondo
Vittorio Pozzo doveva essere la prima di un Ct. Appena dopo la finalissima di
domenica, Bearzot ha spiegato: «Quando ho visto Bergomi e Gentile annullare
Rummenigge e Littbarski, ho capito che avremmo vinto».
La difesa come garanzia e come primo ragionamento. Eppure ciò non basta a definire
catenaccio il modulo di questa squadra. Le marcature, da sole, non fanno catenaccio;
marcano anche i tedeschi e hanno anche loro il battitore libero, fra l’altro uno Stielike
più prudente in zona del nostro Scirea. Il catenaccio è una forma mentis che attraversa
tutta la squadra, perciò la Nazionale di Bearzot non ne è figlia.
É invece una squadra compatta, che gioca in contropiede, attraverso quadrilateri
molto mobili, molto tecnici, molto palleggiati, da Cabrini a Tardelli, da Conti a Rossi.
Non segna con i lanci di sessanta metri, ma al massimo con i cross laterali, il che è
diverso, suggerisce l’idea di schemi aggiranti, a metà tra il tutto-verticale e il tutto-
manovrato. É un contropiede di piedi buoni, non di bisonti, e lo stesso ariete-Graziani
ha assolto alla funzione di frangispazi più che di ultimo uomo d’area che, tornato
Rossi, lui non è più.
Il contropiede di questa Italia mi ricorda la scherma di Nino Benvenuti, formidabile
pugile di risposta, che colpiva arretrando, vincendo d’incontro. Come tutte le cose, c’è
modo e modo. Quando tutti segnano, quando il vertice della manovra si nobilita in
Rossi, quando nei gol di una finale mondiale si trovano il terzino Cabrini (sull’1-0 a
fianco di Rossi) o il libero Scirea e il terzino Bergomi (sul 2-0 di Tardelli in
manovra), è per lo meno singolare parlare di catenaccio, con la patina che questa
parola ha accumulato da anni.
L’arte difensiva, il lampo del contropiede manovrato, sono altra cosa del catenaccio,
che significava marcare stretto in area, mentre questa Nazionale tende a marcare a
centrocampo. Se proprio in questa impresa tattica non fosse riuscita, mai l’Italia
avrebbe potuto bloccare sul nascere un Brasile.
Quanto alla Germania, non va scordato neppure che il fondamentale 1-0 non è né
contropiede né il suo contrario, ma un calcio di punizione manovrato al largo, con
tutti i tedeschi piazzati. Così come con l’1-0 alla Polonia, una rete di guizzo, una
furbata, un gesto di riflessi su calcio da fermo, non un gol carico di esoterici segni.
Vigo fu il Mondiale della difesa. Barcellona e Madrid della difesa e della palle-gol,
tante, contro i migliori avversari del mondo, dal Sudamerica all’Europa. Di solo
catenaccio non saremmo qui a consumare il vocabolario e i giornali di tutto il mondo
non starebbero ad usare in questi giorni espressioni mai tanto gratificanti per il nostro
calcio.
La sorpresa loro non è stata il risultato finale, ma il modo. Che più non offende.