1983 giugno 10 La boxe come tentato omicidio
1983 giugno 10 – La boxe come tentato omicidio
Un coro disordinato e stonato ma certamente spontaneo di “tanti auguri a te” si è levato nel
Madison Square Garden di New York, dopo la strepitosa vittoria di Roberto Duran su Davey Moore
(abbandono all’ottava ripresa) che gli ha fruttato il titolo mondiale del superwelter, versione Wba.
Proprio ieri notte, infatti il pugile panamense, ritrovato idolo della tifoseria newyorkese, ha
compiuto 32 anni. Per questa ricorrenza Duran ha ricevuto molti regali, ma il più bello se l’è fatto
da solo, riuscendo a conquistare il suo terzo titolo mondiale dopo aver vinto nel ’72 la corona dei
leggeri contro Ken Buchanan e quella del welter nell’80 contro Sugar Ray Leonard.
Duran ha saputo dimostrare che un pugile, se è fisicamente e mentalmente integro, può dare il
meglio di sé anche a 32 anni, un’età che per questo sport è considerata piuttosto avanzata. Ma
Duran ha saputo anche confermare quanto sia appropriato il soprannome di “mano de Piedra” con
cui da sedici anni egli viene definito. La sua è stata una boxe esplosiva, essenziale e continua, che
senza accademia né risparmio ha costretto Moore a un ritiro proibitivo per il campione. Moore
avrebbe dovuto lasciare al settimo round, ma l’arbitro non è intervenuto ed i secondi hanno gettato
la spugna in ritardo. Se comunque le prime riprese sono state abbastanza equilibrate, la supremazia
di Duran si è vista nettissima alla sesta ripresa quando, dopo una serie di ganci al volto e al busto,
ha mandato al tappeto Moore, facendogli subire il conteggio da parte dell’arbitro. Ma a parte questo
episodio che nell’economia di un match potrebbe anche non essere determinante, era la faccia di
Moore a mostrare la piega che stava prendendo il combattimento: l’occhio destro chiuso e
tumefatto, gli zigomi gonfi, il naso sanguinante già dalla seconda ripresa. Se dal suo angolo i
secondi non avessero gettato la provvidenziale spugna all’ottava ripresa per “salvare” il campione, è
pensabile che l’incontro sarebbe comunque finito di lì a poco per intervento medico.
Sempre molto serrato il ritmo del combattimento nel terzo e quarto assalto quando sono cominciati
a manifestarsi i segni della dura lotta. In particolare Moore ha preso a sanguinare dal naso mentre è
cominciato a gonfiarsi l’occhio destro di Duran. Successivo violento round nel corso del quale lo
sfidante ha messo a segno i colpi più violenti e Moore ha chiuso la sesta ripresa con l’occhio destro
tumefatto perdendo sempre sangue.
I colpi rapidissimi di Duran a questo punto avevano compiuto la demolizione del campione. Nella
settima ripresa l’arbitro ha richiamato ufficiosamente Moore che colpiva dietro la schiena. Duran ha
continuato a picchiare a ritmo serrato nel tentativo di concludere l’incontro. L’ottava ripresa è
cominciata con Duran scatenato per approfittare dei danni arrecati al volto dell’avversario che
ormai era una maschera.
Si può definire la boxe “noble art” dopo le immagini di Moore-Duran? No, né nobile né arte, perché
non può esserlo il tentato omicidio.
Il pugile è una macchina di violenza che suscita in ognuno di noi un caso di coscienza e che riesce
semmai a legittimarsi soltanto a patto di un rigoroso rispetto delle regole, di una accanita solidarietà
con l’atleta che dà segni di cedimento, di un raffinato senso della prevenzione da parte di chi
amministra il pugile sul ring (arbitro) o da bordo ring (secondi). Quando attorno al rovello di pugni
cedono il pronto soccorso del fair play, il senso dell’uomo, quell’indefinibile rispetto che deve
sempre separare lo spettacolo dalla vita, allora non resta più spazio né per l’arte del boxare né per la
forza trasfigurata dalla tecnica.
Rimane negli spettatori lo sgomento, assieme alla smarrita indignazione per l’uso feroce dello sport.
Abbiamo visto Moore ridotto a sacco, con le braccia penzolanti, un enorme occhio di rospo, lo
sguardo altrove, più un briciolo di energia, l’affievolita coscienza di chi ha preso troppi colpi per
distinguere con chiarezza tra coraggio e prudenza, fra rischio e orgoglio. L’arbitro ha consentito il
massacro per almeno una inutile ripresa; i secondi si sono decisi a gettare la spugna soltanto pochi
secondi prima del gong, quando il pugile negro stava crollando.
In un mondo che stritola l’uomo peggio di un’oliva nel frantoio, bisogna avere il coraggio del
rifiuto. Dire no allo spettacolo quando sopprime la pietas, dire no a chi violenta lo sport: farne reali
di cultura.