1987 luglio 05 Il dio fallito due volte
1987 luglio 05 – Il dio fallito due volte
Il dio che è fallito è il comunismo. Fallito due volte, come modello internazionalista e come ideologia,
in Urss come in Italia.
Quando, dopo la guerra, si allontanò dal partito comunista alla cui fondazione aveva partecipato, lo
scrittore Ignazio Silone affermò: «Quanto più le teorie socialiste pretendono di essere scientifiche, tanto
più esse sono transitorie; ma i valori socialisti sono permanenti». Nella sentenza di espulsione fu
definito «anormale politico», un «caso clinico» e Togliatti gli dedicò il «Contributo alla psicologia di
un rinnegato».
Di strada ne hanno fatta i comunisti italiani. Un linguaggio come quello non lo userebbero nemmeno a
quattr’occhi; qualche «strappo» da Mosca l’hanno fatto; con «Tango» scoprono l’autosatira persino
sulle pagine di un’«Unità» oggi più vicina al «Times» che all’«organo» degli anni cinquanta. E trattano
il ceto medio, l’impresa, lo sviluppo, il pluralismo, la borsa come se avessero assorbito il neo-
capitalismo alla stregua di una Coca Cola.
Per la forza che rappresentano e per i passi che hanno faticosamente fatto («la Storia è lenta» suole
avvertire Gianni Pellicani, il più autorevole dei comunisti veneti), rivendicano la legittimazione a
governare come tutti. Ma manca loro il coraggio della revisione finale: nemmeno il Comitato Centrale
dei giorni scorsi potrà dirsi «storico» finché i comunisti non modificheranno la loro «storia», uscendo
da un’ambiguità di fondo che non può non tenerli in crisi di ruolo.
Attraverso un’analisi fuori dalla mischia, lo hanno affermato con chiarezza lo slavista Vittorio Strada, il
filosofo Massimo Cacciari e l’economista Victor Zaslavskj in un dibattito promosso dal nostro
giornale. La tradizione leninista, dice Strada, «è una palla al piede che impedisce i movimenti al Pci».
Cacciari l’ha spiegato chiaro e tondo: «Più che programmaticamente, il Pci è culturalmente impedito ad
esprimere un’alternativa socialdemocratica». E Zaslavskj non ha dubbi sul fatto che il «legame» con
l’Urss sopravviva ai distinguo.
Inutile deambulare attorno alla questione; i comunisti hanno urgenza di una loro Bad Godesberg. Di
fare ciò che, circa trent’anni fa, riuscì alla socialdemocrazia tedesca con un congresso straordinario in
quella graziosa città della Renania: riporre in biblioteca Marx, neanche nominare Lenin, demitizzare le
nazionalizzazioni, aderire all’economia di mercato, propugnare la concorrenza e il capitalistico
«benessere per tutti». Quella sì una svolta storica, in grado di perpetuare i «valori» buttando tra i ferri i
vecchi le «teorie».
Se ha vinto come Rivoluzione, il comunismo è fallito come Stato. Non che sia cessata, secondo la
formula di Berlinguer, la «forza propulsiva» della prima; molto più radicalmente non è mai stato un
modello il secondo e a dimostrarlo sono proprio l’Urss, la Cina, Cuba, tutte alla disperata ricerca di
un’impresa impossibile: democratizzare la non-democrazia, conciliare la libertà con l’OnniStato, il
profitto dell’individuo con l’economia forzata.
Oggi il «modello» seduce – come ha precisato Zaslavskj – soltanto il Terzo Mondo, in nome della
«stabilità». Una stabilità che pare atterrire persino Gorbaciov.
Sono andati a pezzi tutti i miti, a cominciare dal Vietbam; con Pol Pot è stato confermato che nulla
riesce a uccidere più dell’utopia: con Sacharov i diritti umani hanno messo a nudo i lager del Sistema.
La sola realistica «trasparenza» sta nella capacità di cambiare, mettendo nero su bianco che la
colonizzazione leninista praticata in falce e martello sui «partiti fratelli» ha ritardato di un secolo il
riformismo. «C’è n’è voluto del tempo per capirlo» avrebbe detto Raymond Aron, una delle voci più
alte della sinistra liberale europea.
Non si chiede ai comunisti italiani di sembrare meno comunisti, operazione carica di trasformismo e di
doppiezza. Si chiede di più: di approdare a una nuova identità finalmente rivoluzionaria, in nome della
socialdemocrazia più avanzata.
Il dio che è fallito non risuscita.
luglio 1987