1987 maggio 09 La politica delle cose
1987 maggio 09 – La politica delle cose
A cinque settimane dal voto, la campagna elettorale è un contenitore praticamente vuoto. Nessuno si
mostra si mostra in grado di declinare le generalità di partito sui programmi, sui contenuti, sui
problemi: non perché non voglia, ma perché non può.
Il pentapartito si è dissolto sui rapporti di potere tra Dc e Psi non sulle cose fatte o da fare, che sono
tutte note. Il linguaggio di questi giorni non sfugge a quella premessa e continua anzi a restarne
prigioniero: non a caso si tende a colpevolizzare l’avversario più che a render conto di sé agli elettori.
La gente non sente ancora la campagna elettorale perché, se ha capito che continuano a lacerarsi, non
ha capito perché. Tant’è vero che, più aumenta nel tono la conflittualità, più si fa petulante l’auspicio a
ricostruire il pentapartito sulle ceneri del medesimo.
Nonostante bugie, strumentalizzazioni e fumosità, tre argomenti avevano almeno avuto il pregio di
chiarire il giudizio con un sì o no: il nucleare, la responsabilità dei giudici, l’alternanza alla guida del
governo cioè la staffetta. Strano ma vero, proprio i tre argomenti che avevano egemonizzato due mesi
di crisi sono stati invece aggiornati al dopo-voto: il nucleare e i giudici perché destinati a referendum;
l’alternanza perché agganciata alla ricerca di «nuove regole del gioco», in altre parole riforme o
istituzionali o elettorali o di coalizione che in nessun caso determineranno il voto del 14 giugno.
La stabilità ha generato alla fine il massimo dell’instabilità, perdendo gran parte della buona
reputazione. Sicché non mancano in questi giorni soltanto gli argomenti sui quali regolarci; restano
imprecisati anche gli schieramenti futuri. Come dire che, tra reciproci sospetti, ognuno gioca di sponda
rinfacciando all’altro vizi privati e pubbliche virtù nell’immaginare compromessi o alternative con il
Pci.
La personalizzazione dello scontro ha espropriato la politica delle cose, tant’è vero che almeno tre
leaders legano il loro destino di segretari al risultato: Craxi, De Mita e Natta, in ordine alfabetico. Il
malessere istituzionale ha poi spiazzato lo stesso 14 giugno: come se quella data rappresentasse fin
d’ora non un punto fermo ma un passaggio pressoché obbligato verso ulteriori verifiche. In parole
povere, prima vediamo chi vince e chi perde; subito dopo cerchiamo un accordo per riformare i
meccanismi del potere.
Il momento di cruda transizione renderà difficile il governare e ipoteche le riforme, a cominciare da
quella elettorale che non potrà non porsi la necessità di equilibrare l’«Italia popolare» con l’«Italia di
minoranza», cioè l’Italia della terza forza laica. L’ennesima prova delle contraddizioni di questi giorni
sta nel fatto che, mentre tutti denunciano la polverizzazione politica, altri partiti nascono e 88 sono i
simboli.
A prima vista lo scenario istiga qualunquismo e disimpegno. In realtà, mai come nei momenti di crisi il
voto può pesare il doppio. Si tratta di incalzare i partiti privilegiando istanze di governabilità, candidati
affidabili, obbiettivi concreti: il voto cosciente controlla i partiti; il voto di dispetto o il non-voto,
alimentano la partitocrazia. Di qua non si scappa.
maggio 1987