1988 marzo 30 Ritrovare l’antica saggezza
1988 marzo 30 – Ritrovare l’antica saggezza
Un grande lager
«Chiusi» per tre giorni i territori di Gaza e Cisgiordania
Coprifuoco: si spara a vista – Così gli israeliani rispondono alla «giornata della terra» dei
Palestinesi – Altri scontri con feriti
«Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode». Israele sembra aver dimenticato il
salmo biblico; veglia con la paura su un popolo non suo, su un territorio occupato, su una speranza
negata.
Noi pretendiamo molto da Israele perché la sua nascita fu un sacrosanto risarcimento pagato dalla
storia. Israele riuscì a trasformare un’attesa in Stato, exodus in coraggio, lo sterminio in pasqua di un
popolo. Mentre rivendicava il diritto ad esistere e ad essere riconosciuto, questo piccolo Stato si
caricava sulle spalle un’immensa dignità e un’antica disperazione.
Nessuno ha mai regalato nulla a Israele, isola di democrazia a ridosso del deserto e del rifiuto. Per anni
ha difeso la sua terra come se fosse l’ultima possibilità di contarsi come popolo. Ha suscitato
soprattutto rispetto, perché dimostrava che si può sopravvivere persino al genocidio tenendosi, insieme,
al riparo dagli incubi e ricominciando esattamente da dove tutto sembrava perduto.
Ma proprio perché Israele rappresentò il diritto, è oggi il Paese che più degli altri ha il dovere di
ascoltare i diritti. Rendersi cioè conto che quello palestinese non è un problema di ordine pubblico, ma
un appuntamento obbligato con la pace. E che chiedere – come ha fatto il primo ministro Shamir
davanti al parlamento di Gerusalemme – l’unità nazionale contro il piano americano o contro gli
inevitabili contatti tra gli Usa e Arafat significa isolare Israele stessa più che con i palestinesi di Gaza.
Isolare centinaia di migliaia di persone dal resto del mondo evoca sinistre ombre di lager. Usare i
trucchi dei servizi segreti per confondere la protesta, ricorda inganni che agli occhi delle vittime
mistificarono anche la pietà. Militarizzare la repressione porta a porta fa rivivere rastrellamenti che a
fatica abbiamo scaraventato in fondo alla memoria.
Le vessazioni sofferte dagli ebrei non rendono accettabili quelle inferte da Israele, semmai il contrario.
Sono un monito a mitigare il dolore della storia, a non trasferire sui nemici di oggi i sistemi usati dai
nemici di ieri. Probabilmente è una nostra forzatura culturale, priva di qualsiasi realismo, ma la nascita
di Israele non avrebbe mai dovuto misurare il futuro in soli chilometri quadrati.
Se oggi l’opinione pubblica del mondo non riesce più a capire le immagini che giungono dai territori
occupati, qualcosa d’importante deve essersi rotto nel sogno di Israele. Qui, più che nelle trame della
diplomazia, va ricercato il filo di nuovo exodus. Questa volta verso la causa degli altri.
marzo 1988