1989 giugno 18 Quale voto
1989 giugno 18 – Quale voto
Osserva Luigi Finco, presidente degli industriali di Padova, che per la consegna di un capannone
bisogna mettersi in lista d’attesa per quasi due anni a Fontaniva, dove sfornano mai quanto oggi
l’architettura simbolo dell’economia medio-piccola, alla veneta, appunto l’economia del capannone. A
Buttrio, a pochi chilometri da Udine, Cecilia Danieli ha ristrutturato una grande azienda di
sofisticatissima meccanica abbassando l’età media di mille dipendenti a meno di trentanove anni: il
venticinque per cento d’essi ha un’anzianità aziendale che va da zero a cinque anni con una eccezionale
domanda di ingegneri. Ordini per 1400 miliardi fioccano da tutto il mondo, un quarto dei quali
dall’Urss. Gli imprenditori sono già con testa e piedi nel mondo. Ma Finco coglie nel Veneto segni di
economia gasata, qualche timore nel sempre più incalzante impatto con mercati e monete forti. E in
Friuli, sulla scia delle drammatiche difficoltà del gruppo Cogolo (fino a ieri rappresentativo anche di un
potente intreccio tra impresa privata e incentivo pubblico), si fanno conti non esaltanti sul massiccio
passaggio di aziende friulane in mani straniere o extra-regionali. Né a Nord Est né altrove, ci si può più
accontentare dell’ingegnosità, dell’individualismo, del fai da te, della sana anarchia degli italiani. Ha
scritto di recente il saggista bavarese Hans Magnus Enzensberger: «Il modello Italia, che non è affatto
un modello ma un disordine imponderabile, produttivo, fantastico, continueremo a osservarlo con
sentimenti contrastanti, con paura e ammirazione, raccapriccio e invidia». Un po’ di raccapriccio e di
paura cominciano ad avvertirli gli stessi italiani, soprattutto da quando il nostro sistema politico ha
dovuto sbattere per forza il muso su un’equazione facile facile: non ha senso recitare ogni giorno
giaculatorie sull’Europa del 1993 se si rinuncia a modernizzare l’intera macchina dello Stato. Uno
Stato le cui entrate stanno raggiungendo la media europea ma la cui spesa è incontrollata o meglio,
controllata dalla partitocrazia, uno stato che investe poco nella ricerca e nella scuola; che fa scioperare
la giustizia con milioni e milioni di processi in arretrato, che usa la burocrazia come strumento di
controllo non di servizio: che non sa più esprimere nell’azione dei governi poche ma chiare sintesi
collettive di uno straordinario serbatoio di democrazia e di intraprendenza. Fu opera da giganti mettere
in piedi e difendere una democrazia di tipo occidentale quando quasi la metà degli italiani ne
immaginava una di stampo rumeno o, nella migliore delle ipotesi, jugoslavo. Ma abbiamo perso
velocità nell’ultimo tratto del percorso: quando si tratta, con la democrazia davvero compiuta, di far
oggi decollare lo “Stato dei cittadini” e di portare in Europa non il fatturato del crimine organizzato ma
un Paese grande pronto di riflessi, in grado di rispondere ai nuovi compiti. Non è consolatorio
immaginare che, se l’Italia non saprà tenere da sola l’andatura dell’Europa, sarà l’Europa a rimorchiarla
a forza, che, se il Parlamento italiano resterà luogo di interdizione istituzionale, sarà l’Europa a
legiferare per noi, a colpi di “norme Cee” da applicare e di sanzioni da scontare per inadempienza. Non
facciamoci illusioni: in tal caso saremmo europei per procura, in sostanza l’ultima ruota del carro.
Ideali o modelli alternativi vanno a pezzi sotto i nostri occhi. L’apparato statale centralizzato, che nel
secolo scorso Marx denunciava come un boa mortalmente stretto al collo della società civile, proprio
nel nome di Marx ha trovato in questo secolo totalitaria applicazione dall’Urss alla Cina, dall’Est
europeo al Vietnam, dalla Cambogia all’Etiopia, ovunque il comunismo si è fatto storia. Questa nostra
prima Europa della Cee perfetta non è né mai lo sarà, perché nulla potrà mai esserlo di ciò che l’uomo
costruisce. Ma l’Europa cristiana e illuminista ci ha insegnato ogni giorno di più a diffidare delle
utopie, delle tante ideologie spacciate per ideali, degli imperi dei millenarismi e degli uomini della
provvidenza. Nonostante siano cresciuti in noi dubbi, inquietudini e problemi, siamo in realtà più forti
di ieri perché oggi sappiamo meglio riconoscere i rischi, le speranze, la fatica delle cose da riformare, il
senso del limite, la mai definitivamente vinta scommessa della libertà. Quale voto oggi? Il voto che
serve a questa Europa.
18 giugno 1989