1990 giugno 17 Uno scandalo
1990 giugno 17 – Uno scandalo
Venezia è un comodissimo giocattolo in mano a certa cultura, che non nasconde di volerla trasformare
in una tenuta per soli miliardari, finalmente liberata dall’ingombro dei suoi ceti popolari e dei turisti
senza prenotazione al Gritti. La città tira avanti, dimenticata dalle procedure d’intervento, a scapito di
chi vorrebbe sottrarla a quel mortifero destino classista. Presidente del Consorzio Venezia Nuova,
imprese pubbliche e private impegnate nel maxiprogetto di salvaguardia dalle maree, Luigi Zanda
aveva da tempo ricevuto segnali molto preoccupanti. Il primo dalla Regione Veneto che, sul parallelo
progetto di disinquinamento della laguna veneta (100 Comuni, 2 milioni di abitanti su 200 mila ettari),
tergiversava, a vantaggio di un secondo Consorzio, mettendo a dura prova l’esigenza di una
«progettazione e di un’esecuzione fortemente unitarie». Tradotto nel concreto, se non si portano tutte le
cose al massimo del coordinamento il risultato sarà matematico: perdita di tempo, di denaro pubblico,
di efficienza, di trasparenza negli appalti. Il secondo campanello d’allarme risale al 15 marzo scorso,
quando a Roma il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, massimo organo tecnico del Ministero;
bloccò l’intero progetto di difesa di Venezia dalle acque alte attraverso le dighe mobili, comunemente
note come «Mose». È vero che, soltanto una settimana dopo a Venezia, il Comitato Interministeriale
detto «Comitatone» liquidò all’unanimità quel veto, ma Zanda aveva ovviamente fiutato l’aria e ci
confessò di temere la «paralisi» generale. Nonostante la specialità della Legge, gli strumenti di Venezia
sono gli stessi che fanno del sistema italiano il più complicato e dunque corruttibile, a cominciare dalle
opere pubbliche. Se un’autorizzazione dipende da 22 uffici e da cinque Ministri, non sfugge a nessuno
perché i progetti siano cronicamente inquinati dalle tangenti e dai ritardi. Ora, ci siamo. Nel
memorandum inviato in questi giorni al Comitatone, Luigi Zanda precisa la dimensione biblica della
paralisi da tempo temuta: le opere di salvaguardia, che dovevano essere consegnate nel 1995 («prima
del 2000 avremo una Città sicura in una laguna disinquinata»), vengono spostate fra il 2020 e il 2030!
Tutto ciò, a parte i rischi fisici e ambientali, con il non trascurabile problema di una spesa incontrollata
e incontrollabile. I diecimila miliardi già investiti dallo Stato saranno via via decuplicati con il pasciuto
compiacimento dei soli che guadagnano sui ritardi: gli speculatori. L’allarme viene da Luigi Zanda,
personaggio affidabile e istituzionale, non dal primo che passa per la strada. Il suo memorandum ha
l’aria di avvertire che, se non succederà rapidamente qualcosa di innovativo, tanto vale liberare il
Consorzio da una responsabilità storica quanto avvilente. Quando per Venezia si firmano in quattro
secondi appelli d’ogni specie ma non si ottiene una sola firma finale sotto un nulla osta, che senso ha
ingannare il mondo e tutti noi tagliando nastri e annunciando memorabili date? In un articolo su
«Repubblica», il ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo aggiunge che a Venezia «il piano si è
invischiato nelle lagune politiche e burocratiche, tra crisi aperte e conflitti sommersi, sussurri e grida»;
che «i sogni oggi sono svaniti ma rischia di svanire anche Venezia»; che «le prescrizioni governative
sono bloccate tra eccezioni e registrazioni»; che ci si trova in mezzo «a un pantano di competenze,
interessi, incompetenze, disinteresse, inerzie, resistenze, astuzie, ripicche e disegni di portata
miserabile; nell’angoscia e nella rabbia di combattere quotidianamente contro un esercito invisibile».
«Ora – conclude Ruffolo – parce sepulto. L’Expo si è dileguata. Così sia. Non mi viene però voglia di
brindare». Perché Ruffolo, oppositore dell’Expo a Venezia, sa perfettamente che il meglio del «sì» e
del «no» all’Expo, cioè il fronte in buona fede, ha qualcosa di forte in comune: la paura. La paura che
la partita di Venezia sia già perduta, per sclerosi ed egoismo. Zanda e Ruffolo potrebbero firmare il
nostro giornale, da anni impaurito quanto loro da questo scandalo.
17 giugno 1990