1992 dicembre 29 I pentiti e il complotto

1992dicembre 29 – I pentiti e il complotto

E’ appena uscito il librone di un professore siciliano che vive in Veneto, Enzo Guidotto: “Mafia”, il
titolo, quasi seicento pagine di documentario criminale. Fra tante citazioni, una di Leonardo Sciascia,
di vent’anni fà..
“In Sicilia – scriveva il siciliano Sciascia – un funzionario che si mostrasse sagace e onesto, resistente
alla corruzione o alla pressione dei potenti, veniva o isolato o espulso come un corpo estraneo. Una
storia della mafia altro non sarebbe che una storia della complicità dello Stato, dai Borboni ai Savoia
alla Repubblica, nella formazione e affermazione di una classe di potere improduttiva e parassitaria”.
Se non complice, lo Stato era del tutto incapace di capire la mafia. In un altro libro che andrebbe
adottato come testo per la scuola dell’obbligo (Cose di Cosa Nostra della Rizzoli), il giudice
palermitano Giovanni Falcone ricorda gli allegri trullallà dei vari procuratori generali della repubblica
all’inaugurazione degli anni giudiziari; nel 1956 dichiaravano la mafia “praticamente scomparsa”,
nel 1967 “entrata in un lento ma sicuro declino”.
Senza i “pentiti” lo stesso Falcone assicurava che di Cosa Nostra non capiremmo tuttora un bel niente.
Ancora più decisivi che per smantellare il terrorismo.
Chi sa di mafia, li saggia, li vaglia, li selezione, li verifica, li mette alla prova, ma li rispetta. Falcone
non li chiamava “pentiti” bensì “uomini d’onore che hanno deciso di collaborare”, magari dopo che
la mafia aveva massacrato i loro parenti: 35 per Salvatore Contorno, 10 per Tommaso Buscetta,
liquidati ad uno ad uno.
Uomini d’onore preziosissimi, destinati ad una vita da incubo perché la caratteristica del clan vincente
dei “Corleonesi” consiste nel non dimenticarli mai. Mai. Soltanto dal marzo dello scorso anno, una
legge li protegge avendo preso ad esempio gli Stati Uniti, unico Paese a farli sentire davvero tutelati
e non esposti come in Italia alle angherie di certi giudici, di certe guardie carcerarie, di certo personale
di custodia. “Non mi stupisce – confessava Falcone – che qualcuno si sia pentito di essersi pentito”.
Non ne parliamo poi se un nugolo di pentiti fa il nome di un magistrato o di un poliziotto dei servizi
segreti. La gente comune può finire dentro a carrettate senza che qualcuno sollevi obiezioni, ma se il
pentito fa il nome dello Stato, se chiama per cognome quei “funzionari” di cui parlava Leonardo
Sciascia, se favorisce la caccia alle talpe che forse comunicarono alla mafia gli ultimi spostamenti del
commissario Cassara o di Falcone e Borsellino, allora si salvi chi può nel nome della “solidarietà” di
Stato.
Il suicidio del giudice Domenico Signorino servì a chiedere la museruola per la stampa; l’arresto di
Bruno Contrada consente al capo della Polizia di insinuare che “è una cosa costante attaccare lo Stato
per fiaccare la lotta alla mafia”. Insomma, Tangentopoli o Cosa Nostra che sia, quando le accuse
toccano in alto, la tesi del “complotto” scatta come un tic burocratico, un dovere d’ufficio.
Eppure, la mafia non attacca lo Stato, se ne serve. Non fa politica, la sfrutta. Dello Stato può anche
fare a meno, non dei complici dentro lo Stato. Più che un anti-Stato, la mafia vive di rendita sullo
Stato che si vende e svende i diritti dei cittadini.
“Anche questo improvviso attacco ai pentiti ci deve far pensare” ha non per nulla ammonito
Spadolini, cui nessuno può dar lezioni di senso dello Stato e tantomeno di garantismo. In un Paese
malato, la fedeltà di cosca o di tangente finirà per assomigliare orribilmente a una virtù?