1992 luglio 11 Italia mundial

1992 luglio 11 – Italia mundial
MADRID- Immortale domenica, giorno biblico, di festa. L’Italia ha vinto il Mundial 1982 di calcio.
Dominando in finale la Germania con tre gol di Rossi, Tardelli e Altobelli, è per la terza volta
campione del mondo, impresa finora riuscita soltanto al Brasile, 120 milioni di abitanti, dodici milioni
di calciatori, culla del football-samba.
Come nel 1934 e nel 1938 vince l’Italia del talento latino, della machiavellica intelligenza, di un nerbo
atletico che mai come a Madrid l’ha vista tanto agganciata all’altra Europa, il nord, gli anglosassoni, il
calcio del metodo, della potenza, della classe bionda dei Rummenigge. Grande Italia, che spreca
perfino un rigore e dimentica l’assenza di Antognoni, l’infortunio precoce di Graziani, sudore, fatica e
botte.
Qui, dentro questa immensa tarantella tricolore, mi sento più tifoso che giornalista, ma scrivo con gioia
perché scrivere d’impeto è un po’ come giocare anch’io la mia piccola, magica dose di partita. Chi ha
guardato in televisione, sa benissimo che a volte non basta essere testimoni, bisogna lasciarsi andare
senza rossori.
E’ peccato entusiasmarsi per una pagina di sport senza violenza, senza trucchi, senza bustarelle, senza
mafia, senza camorra, senza ladri, evasori e qualunquisti? No, è un lampo ingenuo e onesto, ma
nemmeno tanto effimero, perché dietro una squadra di undici campioni c’è anche lavoro, preparazione,
dieta, vivaio, sacrificio, rinuncia, abilità, migliaia di ragazzi. Può esserci anche un importante brandello
di Paese, sperare da un prato verde che tutto funzioni meglio.
Grande Italia, migliore al mondo negli Anni Ottanta. Ho fissato lo sguardo su Enzo Bearzot, del Collio
goriziano, giù nel catino di questo stadio orgoglio della nuova Castiglia, e mi pare di aver capito cos’è
lo stordimento dell’uomo, a metà tra l’ebbro e il sobrio, un felice dondolio della coscienza; sono un
«soldato» aveva detto a Vigo, riagganciando atmosfere che furono di Vittorio Pozzo, in tempi di enfasi
naturale. Chissà che cosa si è sentito alle 21.45 di ieri sera, mentre la sua squadra faceva melina e
schioccavano gli olè sulle tribune, dopo sette anni di trincea azzurra, esposto agli agguati di cento
cecchini, perché la Nazionale è la fidanzata di tutti e un bene demaniale, a turno terra di saccheggio o
da parco naturale, ora vituperata fino all’ultimo de profundis, ora cantata in basiliche di alleluia.
Grande Italia, tricampione del mondo. Ha vinto una squadra matura, di ventotto anni virgola otto mesi
di media d’età, che ha mandato in campo in Spagna quindici giocatori, dai quarant’anni di Zoff, ai
diciannove di Bergomi. Una squadra-base di due friulani, due romani, due toscani, tre lombardi, un
umbro e una pelle scura di Libia, Claudio gentile, nato a Tripoli. L’Unità d’Italia è fatta, ex colonie
comprese.
Ognuno ha portato, oltre alla tecnica, frammenti della propria terra. Non dimenticheremo Zoff, solido
come un fogolar di Mariano del Friuli. La marcatura con discrezione di Collovati. Il padano benessere
di Cabrini, gli sguardi neri di Gentile detto «Gheddafi». La lombarda efficienza di Oriali e Scirea.
L’estroversione romanesca e provinciale di Conti e Graziani. Il piglio sovversivo di Tardelli goleador,
lucchese di nascita e pisano d’adozione, «meglio un morto in casa che un pisano all’uscio», lo hanno
capito ieri sera, dal limite dell’area, anche i panzer.
Non dimenticheremo i chiaroscuri d’Umbria di Antognoni, mancato all’ultimissimo appuntamento non
al merito. Non scorderemo Rossi di Prato, che scambiarono per un borghese piccolo piccolo soltanto

perché ha l’abitudine di usare un soggetto, verbo e complemento oggetto senza forzare i toni. Rossi
detto Pablito, sei gol in tre partite mondiali, tre di testa e tre di piede, il più bel tiro a segno della storia
del calcio italiano di tutti i tempi. Rossi, l’asso che fuma, ama il bicchiere di rosso, sposa una bellissima
bionda, non ha la cassa toracica di Gigi Riva, né la potenza di Piola, né l’uncinetto di Meazza, ma è un
giocatore del tutto calcio, un olandese in miniatura, uomo normale, di misure normali, nato per fare con
istintiva souplesse tutte le grandi piccole inarrivabili cose di un goleador.
Non dimenticheremo nemmeno il lavoro di officina di Marini, la freschezza di Bergomi, lo spaurito
caracollare di Altobelli, capace di un gol mondiale, fintando sulle lunghe gambe di caucciù.
Ricorderemo anche la sorniona presenza di Causio, assistente spirituale di una squadra che quaranta
giorni fa era atterrata in Galizia con bauli di inquietudine. Due soli minuti, gli ultimi della finale, sono
bastati al campione dell’Udinese, per sentirsi tutto dentro la grande notte del mondiale.
Questa Italia è molto nostra, molto italiana, mostra le cose che sappiamo ricostruire in mezzo a tanti
dubbi. Mostra l’arte di arrangiarsi anche senza la materia prima dei paesi più robusti. Ha lavorato in
clausura, castità, silenzio, sobrietà, ma quando gioca ha un’aria più scugnizza che trappista. Lo ha
mostrato anche con il primo gol di Rossi, una ventata dentro la rete degli alemanni.
Non ha l’Italia né la catena di montaggio dei tedeschi, né il superiorità complex degli inglesi, né
l’orizzonte del continente Brasile. E’ una penisola strana, che confina con la Svizzera e insieme con
acque d’Africa. Nel disegno dello stivale ha un destino di pallone, che va dalle nebbie del Po al sole del
Sud. E’ una nazionale molto italiana, perché ha un po’ tutto di noi, borghese, proletaria, urbana e
agraria. Questi giocatori vivono tutti il loro mito, il loro successo e il loro benessere con vocazione
interclassista. Fra Tardelli e Rossi, fra Cabrini e Conti, passano tutte le gradazioni, dalla povera
periferia alle buone famiglie senza problemi economici.
Grande Italia. Sette partite, tre pareggi e tutte vittorie. Una finale prima faticosa e dura, poi affascinante
e impazzita in cento eccitazioni. Undici italiani bruni hanno ferito undici biondi, con la eccezione di
Breitner e Muller. L’Italia ha concesso loro soltanto l’orgoglio, un gol per la reputazione di campioni
d’Europa in carica e di bi-campioni di tutti i tempi.
Vent’anni di giornalismo, cinque mondiali, vivo un attimo irripetibile, da uomo e da professionista.
L’Italia di Enzo Bearzot, del blocco-Juve, di un mosaico nostrano, è ora raggrumata a centro-campo,
reggendo sulle spalle questo friulano di Bearzot, un pezzo di vita seria dentro una vittoria collettiva.
All’ultimo minuto, un magnifico arbitro brasiliano ha inseguito il pallone, lo ha carpito, lo ha sollevato
al cielo, fischiando così, con la fantasia della gente di Rio, la fine del Mundial 1982.
Si, io c’ero e racconterò un po’ di cose anche ai miei figli, senza telefono, senza titoli, senza pazienti
dimafonisti. Ma sono sicuro, matematicamente sicuro, che qui c’eravate anche voi, tutti, come Sandro
Pertini.
Grande Italia, non diciamo grazie perché ci pare poco.

luglio 1992