1992 luglio 20 Il giudice Borsellino e altri 5 della scorta massacrati a Palermo
1992 luglio 20 – Il giudice Borsellino e altri 5della scorta ,massacrati a Palermo
Li ammazzano tutti. Come Chinnici, Falcone, Paolo Borsellino.
Li ammazzano dopo aver loro sequestrato la vita, indissolubilmente legati alle scorte, nel vivere e
nel morire. Li aspettano al varco nei gesti più umani, su un marciapiede uscendo di casa, e mentre
tornano per un week end, o dopo una visita alla madre. Può essere un sabato, una domenica,
sempre, l’agguato non fa riposo settimanale.
Come il carabiniere Carlo Alberto Dalla Chiesa e come i poliziotti fatti a pezzi, lavorano al servizio
di uno Stato in cui credono pochissimo per restaurare l’autorità di uno Stato in cui prevalga
finalmente il potere della Legge.
Sono i magistrati che tentano di fronteggiare l’organizzazione di Cosa Nostra con mezzi inadeguati,
con codici da gentiluomini, senza una copertura “corale” per usare lo stesso aggettivo di Borsellino.
“Ci vuole qualcosa di più”, aveva aggiunto commemorando Falcone. Un atto d’accusa come una
lapide, “Qualcosa di più” per non morire ammazzati e per salvare il Sud dal Sud mafioso, e il Nord
da quel Sud dominante.
Chinnici, Falcone, Borsellino. Giudici siciliani, uomini di Sicilia che muoiono in Sicilia per liberare
la loro terra e il nostro Paese da un pezzo di Sicilia che è diventato multinazionale del crimine.
Li ammazzano tutti. Quelli che sono pozzi di informazioni e di esperienza. Quelli che dovrebbero
guidare nuovi apparati di investigazione. Quelli che, a dispetto di omertà, corvi, talpe, bassezze
d’ogni risma, invidie e amarezze, – sforzi indicibili” confessava Borsellino – hanno pazientemente
messo a fuoco la Cupola, i nomi di Cosa Nostra, la struttura, i latitanti, le complicità. Soprattutto, la
strada per colpire nel nome di uno Stato tutto da ripristinare.
Loro hanno utilizzato al massimo i pentiti; chiesto di penetrare i flussi finanziari; favorito lo
scambio di indagini a livello internazionale. Inascoltati, hanno predicato per anni che dalla mafia
non ci si deve più difendere, bisogna attaccarla, Stato contro Mafia, facendola diventare non
un’emergenza da funerali o un’emozione da prima pagina, ma una politica. Anzi, la prima politica
di un Paese che fatica oramai a controllare lo stesso territorio.
Per questo li ammazzano, uno dopo l’altro. E a tutti i costi, anche a rischi di sventrare una città o
un’autostrada, salvando per puro caso la vita di altre decine di persone.
Cosa Nostra sa che i Falcone e i Borsellino sono gente preziosa, il cemento delle nostre residue
speranze. La mafia sa perché gli elimina; loro sapevano perché rischiavano tanto.
Non ha alcuna importanza discutere, per l’ennesima volta, se la mafia colpisca per ribadire la sua
potenza o, al contrario, ritenendo che quella potenza sia ora minacciata. Tragica accademia, che
depista dall’essenziale; la risposta corale, dura, efficiente, quotidiana.
Ci sono giudici che muoiono sul fronte della mafia. Altri che stanno provando a svergognare e a
punire il più miserabile sistema di corruzione messo in piedi dai partiti in una democrazia moderna.
Sia la mafia che le tangenti hanno in comune almeno l’espropriazione dello Stato di diritto e
l’inquinamento dell’economia.
Non possiamo lasciare soli gli investigatori, magari piangendoli da morti e attaccandoli da vivi. E’
ora di finirla con gli eroi e i lutti di Stato; prima delle auto di scorta, va blindata la politica. Anche
Paolo Borsellino lo pensava, lo diceva, ci sperava.