1992 ottobre 21 Ma…
1992 ottobre 21 – Ma…
Ai serbi, ai montenegrini, ai croati, in generale ai cosiddetti “ex-jugoslavi si riconosce di essere stati
grandi combattenti. Nel selvaggio vocabolario della guerra, quell’attestato vuol anche dire che
ammazzano con il minimo degli scrupoli. Anche tra di loro, occhio per occhio, genitali per genitali.
Non metaforicamente, tanto per dire. Lo dicono le cronache.
Gli istriani e i dalmati sono gli unici a non sorprendersi. Nemmeno quando a Sarajevo, o giù di lì,
sparano alla Croce Rossa o alle camionette bianche dell’Onu o ai soccorritori che portano viveri e
medicinali. Nulla spaventa gli occhi di chi vide le foibe.
Oggi l’orrore ritorna, fino ad uccidere la pietà. La Bosnia va e viene dalle prime pagine dei giornali
perché il troppo sangue stanca. La ferocia quotidiana genera indifferenza.
Sarajevo dista 600 chilometri da Venezia; la frontiera attraversa Gorizia, delimita Trieste. Quel
massacro è dietro l’angolo, a due passi da noi. Eppure, alzi la mano chi di fronte a mesi e mesi di odio
allo stato puro, non ha almeno una volta pensato: che si arrangino, se proprio vogliono scannarsi, lo
facciano, contenti loro, contenti tutti. Amen. Alzi la mano chi non si è chiesto perché mai dovremmo
mandare soldati italiani che gli ex- juogoslavi neppure vogliono; perché rischiare piloti che, come
grazie per i voli umanitari, vengono tirati giù come se fossero bombardieri.
Bene. Tutti questi son ragionamenti all’ordine del giorno. Chi può separare a tavolino l’impotenza e
il pregiudizio, il realismo e la diffidenza?
Ma c’è un “ma” grande come una casa. Il “ma” della vita, della civiltà, dell’altruismo, dell’amore.
Diciamo amore perché in questo caso serve qualcosa di più forte della stessa solidarietà, inadeguata
a tanta tragedia così da apparire una misura di burocrazia internazionale. Quel “ma” avversativo
dell’assassinio di massa fa appello al meglio di noi spettatori; il fare la cosa giusta contro tutte le
apparenze; scommetter sul gesto gratuito; tentare di mitigare, se non la cattiveria, il suo prodotto di
sofferenza. La peggiore delle sofferenze, quella innocente, profuga, indifesa, inflitta per destino, un
tatuaggio di nascita.
Dell’Unicef come della Caritas, in genere ci si fida. L’Unicef chiede in questi giorni di dimenticare i
giudizi per ricordare le storie: di persone, dei figli uguali in tutto e per tuto ai nostri.
Non esiste coperta che possa coprire la coltre di crudeltà e di gelo. Ci sono soltanto coperte, tante e
tante, che possono riscaldare –forse non è detto, chissà, ma ne vale lo stesso la pena – minuscoli
frammenti di fiducia.
Su quella, i cecchini non potranno sparare.