1993 agosto 1 Questa è una guerra
1993 agosto 1 – Questa è una guerra
Lasciamo riposare per un momento i giudizi di merito e limitiamoci alle cifre. Per legge del
contrappasso, a Raul Gardini toccò un curioso destino: il capitalista che, da Roma a Venezia, aveva
trattato a pesci in faccia i politici, è stato alla fine quello che li ha pagati a peso d’oro. Più di
chiunque.
Segno che il cappio del malaffare non lasciava scampo. Quando insistiamo nel definirlo regime, il
riferimento va alla inevitabilità del patto di corruzione in ogni passaggio delle operazioni.
Il tombino Eni-Montedison contiene di tutto, a cominciare dalla buonuscita di 2,805 miliardi pagata
dall’ente pubblico al socio privato. Quella somma valeva fra l’altro un miliardo al giorno di
interessi: il magistrato non sa a chi siano finiti.
Il magistrato vorrebbe anche sapere perché l’Eni rastrellò in borsa azioni Enimont per oltre 190
miliardi; e perché sempre l’Eni riacquistò 600 miliardi di obbligazioni appena emesse. In tutti i casi,
è forte il sospetto che puntasse a creare fondi neri di regime.
Cagliari si era detto disperato. Lo erano altrettanto le casse dello Stato e gli azionisti di minoranza
della Montedison. Cagliari era un manager politico, messo lì dalla segreteria del Psi: avrebbe potuto
collaborare alla messa al bando dell’economia di rapina. Non l’ha fatto. Non ha voluto farlo
nemmeno Gardini, che avrebbe avuto la storica occasione di vuotare finalmente il sacco del
capitalismo all’italiana, più di quanto non abbiano ammesso a denti strettissimi gli Agnelli e i De
Benedetti. Il rispetto e la pietà qui non c’entrano un bel nulla. Sono gli stendardi di comodo dei tanti
bari che in Parlamento lavorano a tempo pieno, anche in queste ore, per ridurre la custodia cautelare
a un picnic. E semmai per riservare quella vera, la più drastica possibile, ai giornalisti in prima
linea.
Il fondo nero della prima Repubblica mostra con Enimont il suo capolavoro. Un capitolo di morti
strane, di suicidi, di testimoni che – come Garofano e Sama – vanno ora protetti in località segrete.
Sono affari politici, non finanziari; rappresentano la regola, non la deviazione. Perciò sono tanto
micidiali.
Chi si fa illusioni, cadrà con esse. È in atto una guerra, che si manifesta attraverso le inchieste. Di
mafia, di tangenti e di terrorismo, tutti assemblati nello Stato.
La paternità delle bombe divide, tra criminalità politica o mafiosa, fra trame interne o
internazionali. Noi condividiamo la tesi del procuratore di Milano Borrelli, che proprio ieri ha
definito il collegamento tra bombe e pista mafiosa “soltanto una delle congetture e certamente non
la più attendibile”.
Ma la questione è tanto vitale da dover essere posta in altri termini. L’Italia non può scegliersi
questa o quella pista, dato che il nemico della democrazia le usa a turno o contemporaneamente.
Non abbiamo scampo.
Per vincere la guerra dello Stato e la rivoluzione del cambiamento, le piste vanno setacciate tutte,
senza tregua e senza divisioni. In attesa di un Parlamento degno delle sue funzioni, gli italiani sono
soli con sé stessi. Con la sola arma della pressione popolare.