1995 febbraio 19 Meglio Fede che la censura

1995 febbraio 19 – Meglio Fede che la censura

Una premessa. In campagna elettorale, accetterei di applicare le regole della “pari opportunità” anche
ai quotidiani, non solo alla tv. Perché esattamente questo il nostro giornale ha tentato di fare in questi
anni, distinguendo il più possibile le opinioni dall’accesso all’informazione di partiti e movimenti.

Ci siamo garantiti da soli, non essendoci mai accorti che esistesse un Garante dell’editoria. Senza
contare che i giornalisti in grado di giudicare giornalisti sono più rari del panda: meglio lasciar perdere
e stendere un pietoso velo.

Personalmente, rispetterei semmai il verdetto di comitati di lettori o telespettatori, unici titolari del
diritto all’informazione. La propria coscienza e la legge penale bastano ad arginare il giornalista prima
ancora di affrontare il giudizio del telecomando e dell’edicola. Ma se i giornalisti si rivelassero beceri
a tal punto da non sapersi autoregolamentare per cultura, che almeno li censurino i loro utenti non la
stessa corporazione cui appartengono.

E’ tutto da ridere. Da un lato, nel nome del sistema maggioritario, si vorrebbe che i giornalisti si
schierassero come tanti galoppini di partito; dall’altro, nel nome della cosiddetta “par condicio”, si
pretenderebbe una neutralità da robot. Insomma, schierati e super partes contemporaneamente!
Soltanto in Italia e in pieno carnevale si possono osservare fenomeni tanto divertenti.

Anche la distinzione tra giornali e televisione va presa con le molle. E’vero: in Italia si legge poco e
si guarda molto, quindi bisogna stare più attenti a regolamentare la tv.

Però attenzione. 1) E’ falso che gli italiani telebevano proprio tutto; 2) E’ falso che poche trasmissioni
concentrate in un paio di mesi spostino milioni di voti; 3) E’ vero che, dai referendum alla nascita
della Lega gli italiani andarono in contro-tendenza rispetto alla tv; 4) E’ vero che i flussi elettorali
emergono dai flussi culturali non viceversa.

Così stando le cose, diventa infinitamente più importante una buona legge anti-monopolio (antitrust)
a vantaggio del pluralismo che una sequenza di divieti che durano lo spazio di un mattino elettorale.
Anche perché se uno è telegenico non c’è par condicio che tenga: saprà sfruttare meglio lo stesso
tempo a disposizione, la stessa trasmissione, lo stesso conduttore.

Ovvietà queste che non varrebbe nemmeno la pena di ricordare tra persone in buona fede, davvero
interessate all’informazione (di tutti) e non alla disinformazione (di tanti). Maurizio Costanzo fa il
suo lavoro bene e con equanimità, che cosa mai dovrebbe cambiare per regolamentarsi? Ma lo stesso
vale per Andrea Barbato o per un’ottima trasmissione radiofonica come “Zapping”. Enzo Biagi
realizza in cinque minuti ciò che ai “mezzibusti” bollati da Sergio Saviane non riuscirebbe nemmeno
in un’ora.

Se chi fa politica non possedesse televisioni, se la tv non fosse concentrata in Rai e Fininvest, se
troppi giornalisti e opinionisti non fossero in carne e ossa dentro fino al collo nel conflitto di interessi
tra informazione e militanza, della par condicio non sapremmo che farcene perché avremmo già
evitato il 90% dei nostri problemi. A monte, non al momento della slavina.

Dobbiamo stare attenti. Meglio cento Emilio Fede che la censura personale; ci servono l’intelligenza
luciferina di Blob e il genio irridente di Chiambretti più della par condicio dei burocrati. In
democrazia, la regola virtuosa resta sempre la stessa: regole, ma nella libertà.