1995 gennaio 18 Con tanta, tanta stima
1995 gennaio 18 Con tanta, tanta stima
Non ho mai cambiato opinione sul pool Mani Pulite. Merita un monumento nazionale; resterà per
sempre nei libri di storia patria per aver estirpato, nel nome della legge penale, un intero ceto politico.
Gli italiani sapevano di avere governanti inefficienti e sospettavano che fossero anche corrotti. Ma
senza il pool di Milano, e le tante Mani Pulite d’Italia, l’accusa di inefficienza non sarebbe approdata
a nulla se non accompagnata dalla prova della corruzione.
Se la sarebbero cavata tutti, come sempre. In democrazia, è sgradevole rinnovare la classe dirigente
a colpi di codice invece che con il voto, ma quando ci vuole, ci vuole. Il nostro Paese aveva bisogno
di due scosse: una di legalità, una di massa.
Mani Pulite qualche errore l’ha commesso, qualche forzatura, lapsus. Tuttavia, in proporzione meno
che fisiologica rispetto alla mole degli inquisiti e alle inconfutabili prove.
Quando un’indagine frantuma un sistema di potere, il minimo che possa accadere è che quel potere
reagisca. Prima lo fece con la tesi del complotto, poi entrò in sonno aspettando tempi migliori. I quali
sono puntualmente arrivati e già da un pezzo. Un’inchiesta giudiziaria, con effetti politici paragonabili
a quelli di una “rivoluzione pacifica”, non ha scampo: si imbatte per inerzia nella lotta politica.
Tanto per cambiare, il primo a capirlo fu un uomo dell’acutezza di Cossiga. A dicembre, quando gli
chiesero se a suo parere Di Pietro sarebbe entrato in politica, l’ex capo dello Stato rispose che,
qualunque cosa facesse il pm di Mani Pulite, era già in politica! A sua insaputa, per la sola forza degli
eventi, per quel ruolo di simbolo: un magistrato che non guardava in faccia nessuno era già la novità
più politica egli anni Novanta.
Il pool era condannato allo stillicidio delle strumentalizzazioni e delle illazioni. Non si può oggi capire
nulla, né di Borrelli né di Di Pietro, senza ricordare la corsa ad ostacoli del pool, prima per troppi
riflettori, poi per logoramento delle inchieste, quindi per stanchezza dell’opinione pubblica. L’assalto
alle “toghe rosse” nasce da questa strana miscela.
Personalmente, mi fido di Di Pietro. E continuo a prenderlo alla lettera: la sua lettera inviata a Borrelli
per annunciare il ritiro dalla magistratura.
Era il 6 dicembre. Di Pietro motivò la decisione con le “innumerevoli manifestazioni di piazza”, con
le “tifoserie politiche”, con l’attribuzione di un “inesistente fine politico alle sue normali attività”.
Era stufo di sentirsi tirare per la giacca, o di qua o di là.
Concluse la lettera a Borrelli usando questa espressione: “Con tanta, tanta stima”. Se così non è, se la
lettera omise qualcosa di grosso, se Di Pietro ha poi confessato in un orecchio a Berlusconi ciò che
non scrisse a Borrelli, allora ha ragione chi nel pool gli chiede di rompere il “silenzio”.
Dove Borrelli sbaglia di grosso è nel definire “colpevole” quel silenzio. Fino l’altra sera il silenzio di
Di Pietro era più che legittimo; soltanto ora non lo è più. Proprio perché schietto, pane al pane e vino
al vino, Antonio Di Pietro deve chiarire se la lettera di dicembre vale ancora o se Berlusconi, inquisito,
ha avuto il privilegio della verità vera sul suo avviso di garanzia proprio da chi lo firmò coll’intero
pool.
Non è dettagli da poco. Interessa la sostanza, non il tono della polemica.