2001 dicembre 30 Dove bussa l’immigrato
2001 dicembre 30 – Dove bussa l’immigrato
Una sera di queste mi sono trovato a bere un bicchiere di rosso all’Associazione emigranti nel mondo
di Musano di Trevignano. Con Ernesto Pontello e Arone Venturato, miei coetanei, si chiacchierava di
storie perdute nella loro notte dei tempi, di quando erano partiti insieme per cercare in Australia il pane
imbottito di speranza che nella povera campagna veneta non si trovava più. Provarono un po’ di
mestieri, poi lavorarono in galleria dove con il martello pneumatico si sobbalzava fin nelle budella. Ho
chiesto anche dei canguri, tra una cosa e l’altra. Quasi li avesse ancora là, a portata di marsupio,
Venturato ha sorriso: «Se no se ghe toca i picoli, i xe boni come cristiani». E Pontello, senza esitare un
secondo: «Meio, meio dei cristiani». Detto da entrambi con tenerezza verso i canguri e con altrettanto
disincanto verso gli uomini. Conoscersi, comunicare, intendersi, rispettarsi, possibilmente volersi bene.
L’universo dei ricordi di un emigrante dà per forza la precedenza ai rapporti umani, e umano può
diventare tutto, anche un canguro, buono come un «cristiano». Senza diffidenza. Quasi mai si sceglie di
emigrare; quasi sempre è il bisogno che sceglie, facendo spesso tornare i conti della vita, magari con gli
interessi. Ricordo un trentino in Sudamerica: «Per me – raccontava soddisfatto – venire qui è stato il
mio totocalcio». A Buenos Aires, allora, era come se avesse vinto un tredici.
Emigrare vuol dire reinventarsi da zero lo spazio vitale, il quale va misurato a dosi di sentimento non a
chilometri quadrati. Vale in Australia, grande venticinque volte l’Italia, esattamente come in Italia, che
sembra non aver più un buco a disposizione. Sembra… A patto, questo il punto, di smettere di fare i
furbi con noi stessi. Non sono affatto troppi un paio di milioni di immigrati su cinquantasette milioni di
italiani: troppi, semmai, sono i vuoti lasciati dagli italiani, ma questo è tutt’altro ragionare. Fra l’altro,
vuoti destinati ad allargarsi, come predicano tutti gli esperti. Bando allora a furbizie e ipocrisie. Se la
produzione industriale scende di un niente, i titoli dei giornali piangono a nove colonne. Non parliamo
poi dei consumi: a detta dei telegiornali, debbono crescere a vita, sennò andiamo tutti in crisi nera.
Quanto al pil, prodotto interno lordo della ditta Italia, ogni suo segno meno genera depressione di
massa, con punte particolarmente acute a Nordest. Quest’anno, avrò letto almeno cento volte che «la
nostra locomotiva non tira più». Insomma, senza sviluppo costante si affaccia l’infelicità sociale. Ma
non si potrà garantire sviluppo senza immigrazione: la cosa è talmente nota da non meritare nemmeno
una riga in più, tanto che gli imprenditori – da Treviso a Padova, ma non solo – mai come quest’anno si
sono impegnati per dare lavoro a casa. Senza casa, il lavoro si riduce tutto a un salario mentre dovrebbe
sempre rappresentare un valore. È tuttavia lampante che l’immigrazione riguarda fette sempre più
ampie di società, non soltanto il mondo delle imprese. Chi non vede o è cieco o si rifiuta di vedere.
L’anno scorso finì con la caccia agli infermieri; adesso tocca ai postini. Nel Veneto, siamo a corto di
personale a tutti i livelli. Mancano anche preti. Il governo ha ufficializzato con la sanatoria di questi
giorni un ulteriore, vasto fenomeno. Siccome gli italiani non ce la fanno più a badare ai propri vecchi, i
badanti sono d’importazione e vanno tolti alla svelta dalla clandestinità. Di questo si tratta in soldoni, il
che vuol dire una cosa anche politicamente clamorosa. L’immigrazione fa impresa a pieno titolo,
assicurandole il rifornimeno di manodopera, di operai specializzati, di tecnici a volte, se non addirittura
di… imprenditori, come già accade in Veneto o in Friuli, per esempio. Ma ora, in più, l’immigrazione fa
anche welfare sul campo, stato sociale diffuso, assistenza alternativa: il welfare fai da te in sostanza;
che, oltretutto, libera sul posto di lavoro risorse femminili altrimenti penalizzate dalla famiglia. Con più
vecchi e meno figli, l’Italia non ce la fa più a badare da sola a se stessa, come tanti altri Paesi
postindustriali. Sarà brutale dirlo così, ma così stanno le cose, senza tanti minuetti di parole. Qui,
mentre c’entra pochissimo l’abusata «solidarietà», c’entrano i numeri, nudi e freddi come la
Marmolada. A rimorchio dell’economia e del lavoro, cresce un nuovo mondo. Di possibili malintesi,
anche di conflitti; e però di straordinarie vitalità, come sanno soprattutto le maestre elementari. La loro
è oramai una pedagogia di frontiera. In una prima classe della provincia di Padova si contano otto
bambini stranieri su diciotto; in un’altra, di Castelfranco, un piccolo cinese potrebbe impartire lezioni
di matematica anche se non risce ancora a esprimersi in italiano. Sotto i nostri occhi, sia pure spesso
senza dare nell’occhio, è in atto una rivoluzione. Le rivoluzioni costano. Anche la società multietnica
costa, con una particolarità italiana che ho visto sottolineata in un libro uscito da poco (Immigrazione e
diritti di cittadinanza, di Monica Simeoni, edizioni Seam). In un’Italia policentrica di suo, si dimostra
variegata anche l’immigrazione. Al contrario di Francia e Germania, dove algerini e turchi superano da
soli il sessanta per cento, da noi i primi cinque gruppi nazionali d’immigrati, cioè Marocco, Albania,
Filippine, ex Jugoslavia e Romania, fanno il trentacinque per cento della presenza straniera. Il professor
Umberto Eco raccomanda di distinguere il concetto di immigrazione da quello di migrazione.
Quest’ultima riguarderebbe, a suo dire, gli storici mentre l’immigrazione sarebbe un problema della
polizia. Non vorrei aver frainteso, ma dissento. Mi trovo più a mio agio con quel che pensa Ralf
Dahrendorf, politologo e membro della Camera dei lord inglese, quando afferma che l’asse portante è
la «cittadinanza». Solo la cittadinanza fa l’immigrazione responsabile al cento per cento, in diritti e
doveri, liberalmente. Sei mesi fa la Germania, disperatamente a corto di esperti in biotecnologie e
Internet, offrì agli extracomunitari di quel livello un sistema molto favorevole di cittadinanza a punti.
Era dai tempi del Kaiser che non mutava così profondamente l’idea di sentirsi tedesco per diritto di
sangue. La cittadinanza è il contrario della clandestinità. Anche se sembra banale rammentarlo, va
ribadito senza peli sulla lingua proprio per evitare che, per dirla con il professor Eco, l’immigrazione
diventi tassativamente un affare di polizia. Lo scorso febbraio, l’ex ministro degli Interni, l’ulivista
Enzo Bianco, dimostrò cifre alla mano che l’immigrazione clandestina si era per così dire specializzata
in una serie di reati, dalla droga ai furti, dallo sfruttamento al contrabbando, dalle risse alle rapine.
Lavorare duramente su questo habitat fabbrica sicurezza ma, soprattutto, isola i pregiudizi: non c’è
verso, l’integrazione cammina sulle gambe di una immigrazione ordinata. Il resto suona retorico. A
dispetto dei tabù, si deve sempre discutere di tutto. Anche di islam, se serve, con la stessa libertà con
cui discutiamo di noi stessi per dovere di cittadinanza. L’immigrato di oggi è un noi di dopodomani, in
fondo.
30 dicembre 2001