2001 Gennaio-Luglio Dal Bitossi di Rocco ai ragazzi della via Trap
2001 Gennaio – Luglio – Dal “Bitossi” di Rocco ai ragazzi della via Trap
Era ungherese il più bel Football del dopoguerra; la sua geometria a WM andava in gol come
accompagnata da una rapsodia di Franz Liszt.
I ragazzi di quella indimenticabile “via Paal” del calcio si chiamavano Puskas, Kocsic, Hdeggkuti,
Boszik, il Danubio in campo, schemi allegri come i loro vini bianchi e sostanziosi come la carne del
Gulyàs, prima che i cingolati sovietici smembrassero una squadra di sogno.
Giovanni Trapattoni, lombardo di Cusano Milanino, è uomo di memoria e di memorie. Aveva bisogno
di una città come Budapest per l’esordio dei suoi ragazzi di via Trap.
“Glia allenatori sono come pesci – sostiene Trapattoni – dopo un po’ puzzano”. A 61 anni smentisce
se stesso all’olfatto; ogni volta, comincia qualcosa, mai ri-comincia.
La pensa come Helenio Herrera, importante è vincere non partecipare, e l’ha ampiamente dimostrato,
con coerenza. Avendo guidato la Juve per 400 partite, un record, ha vinto sei scudetti, il doppio di
Herrera e il triplo di Nereo Rocco, oltre che sette-otto Coppe.
E’ il contrario di Zoff che, da commissario tecnico della Nazionale, avrebbe preferito un calcio senza
sonoro, che si spiegasse tutto e solo in campo, come un nuovo cinema muto. Con Trapattoni, il brusio
delle parole sta al calcio come l’ossigeno ai polmoni: senza ne morirebbe di malinconia.
Clonata la pecora Dolly, forse un giorno cloneranno un uomo. Il Trap no, non avrà gemello né clone.
Il Trap xe il Trap diceva Rocco che non lo avrebbe tolto di squadra nemmeno con il certificato
medico.
Rocco era in anticipo su tante cose. Lo “spogliatoio” era il suo sindacato interno; con il sindacato era
consigliabile la concertazione e il Trap funzionava nel Milan appunto come agit-prop della panchina.
“E’ gradito da tutti i compagni”, mi informava il paròn, e tanto doveva bastare, oltre a tutto il resto.
Allora era il 1967, Rocco lo chiamava affettuosamente “Bitossi”, con il cognome del ciclista dal cuore
ultrasistolico. Il cuore matto di Trapattoni consisteva nel pompare soltanto sangue rossonero. “Era e
resta sempre un dilettante”: per questo il grande Nereo non sopportava che, di tanto in tanto, “quattro
inoscienti” lo fischiassero a San Siro; per lui, fischiare il Trap alla Scala del calcio era come fischiare
il tricolore in Piazza dell’Unità a Trieste.
E’ utile ricordare il giocatore per gustare il tecnico. Da mediano, il Trap giocava da artigiano, tutto
posizione e senso tattico. Aveva soltanto la squadra in testa, giocatore meno Narciso che abbia mai
conosciuto .
Culo un po’ basso, non era bello a vedersi. Aveva la stessa aria trafelata di oggi, come se corresse
sempre a un appuntamento. Il primo versetto del suo vangelo era: non prenderle, secondo la parabola
di Rocco che, dopo un 9-3 sull’Atalanta, se ricordo bene, fece alla squadra una memorabile cazziata
per aver preso quei tre gol!
Nato come mediano di spinta, Trapattoni arretrò via via in marcatura. Una volta, contro Pelè, si costruì
gloria imperitura nel match meno glorioso della sua carriera. Quella volta “annullò” un Pelè già nullo
da solo, perché infortunato e spedito una mezzora in campo per venalissime ragioni di cassetta.
Da tecnico, Trapattoni fa in fondo autobiografia tattica. Come Bearzot o come lo stesso Zoff, usa da
sempre un cocktail di marcatura a uomo (come fece in maturità) e di presidio a zona (che possedeva
per istinto). Oggi fa giocare come giocò lui ieri.
Il Trap è il Trap. Quando lo incensano, avverte: “non sono il mago Zurlì e nemmeno Sharon Stone”.
Se gli chiedono di Del Piero, precisa: “Fa parte dei fenomeni da gioie e dolori”. Che a guardar bene,
è l’aggiornamento degli “abatini” tanta classe e scarso nerbo di Gianni Brera.
Conosce tutti i proverbi della nonna, a cominciare dalle bugie con le gambe corte. Se serve, ne
inventa, su due piedi: L’uva bianca non può diventare uva rossa”. E ha un rapporto molto
confidenziale con la storia: “Gli americani – ha detto l’altro ieri – tiravano le frecce fino a 150 anni
fa”. Lui può dire tutto, fino a introdurre un neologismo, una figura retorica e un’innovazione della
lingua tedesca di Goethe e di Gunter Grass. Quando allenava il Bayer, definì i suoi giocatori una
Flascheleer, una bottiglia vuota, e usò il cognome di un suo titolare, Strunz, come insulto, “Strunz!”
urlato più volte durante un memorabile assolo televisivo.
Alla fine si congedò con Ich Habe Fertig, “io avrei finito”, espressione da allora entrata in politica
per ricordare l’abbandono del cancelliere Helmut Kohl.
Nemmeno Dario Fo e Gigi Proietti avrebbero fatto di meglio.
Giovanni Trapattoni, che al suo paese ha anche una fabbrica di marmitte, avrà in mano la Nazionale
per due anni, a un miliardo e 200 milioni netti a stagione. Prima di partire per Budapest aveva
annunciato : “E’ sempre meglio viaggiare col vento in poppa”.
Anche un 2-2 per il momento gli può bastare, ma di sicuro non gli basterà una Nazionale poco furba.
Il Trap si perdona tutto, tranne l’ingenuità